Il sudafricano William Kentridge, uno dei massimi artisti visivi contemporanei, propone una poetica dal gusto antico in cui arte e tecnica si ricongiungono nel valore e nel significato originario di techné: gli spettacoli basati sulle sue originalissime animazioni filmate ricordano infatti i teatri d’ombre orientali e quei teatri di inizio secolo che sperimentavano le rudimentali tecniche dell’animazione luminosa (disegni su pezzi di vetro mobili, proiettati grazie alla lanterna magica), promuovendo una primordiale forma di teatro ottico.
La biografia di William Kentridge è costellata di eventi ed esperienze legate al teatro: iscritto alla “Ecole Jacques Lecoq” di Parigi, diventa scenografo, attore e regista della Junction Avenue Theater Company e della Handspring Puppet Company di Johannesburg e allestisce testi di Tom Stoppard e Alfred Jarry; diventa in seguito anche regista di corti in animazione girati in 16mm, oltre che autore di disegni a matita, a pastello, a gessetto e a carboncino su carta, e di incisioni: nella loro angosciante commedia nera si palesa una dura critica sociale al governo sudafricano prima delle elezioni democratiche del 1994 in Sudafrica e prima della fondazione dell’African National Congress da parte di Nelson Mandela.
Lavora ai disegni per lo spettacolo Faustus in Africa (1995), e per Ubu Tells the Truth(1996-1997): i suoi disegni e lavori grafici costituiscono il corpus visivo delle successive animazioni filmate realizzate per lo spettacolo andato in scena con marionette dal titolo Ubu and the Commission of the Truth; alle scene per Confessions of Zeno (2002), all’opera in musica Il ritorno di Ulisse in patria (1998) da Monteverdi; Preparing the Flute è invece un modellino teatrale con due film animati in 35mm con cui Kentridge reinventa il suo lavoro per le scenografie per Il flauto magico da Mozart.
I Drawings for Projections costituiscono il cuore dell’elaborazione artistica di Kentridge estesa anche alle scenografie teatrali: sono film animati e muti realizzati a partire da disegni a carboncino e inaugurati alla fine degli anni Ottanta con capolavori come Monument (1990). liberamente ispirato a Catastrophe di Beckett, Sobriety, Obesity and Growing Old (1991), Felix in Exile (1994), History of the Main Complaint (1996).
Travagliato e singolare il lavoro dell’artista davanti alla macchina da presa Bolex 16mm per creare sequenze animate, senza sceneggiatura o storyboard: la sequenza è composta da minime variazioni e cancellature dai pochi disegni a carboncino e pastello monocromo su carta, che conservano tracce evidenti della propria metamorfosi, azione questa che ci riporta al cinema delle origini, ai primi studi fotografici del movimento di Marey e Muybridge. La caffettiera diventa nell’animazione una miniera, lo stetoscopio un telefono: il paesaggio esterno assorbe le memorie, anche drammatiche, e le vicende sociali che lo hanno attraversato.
All’automatismo del medium utilizzato, Kentridge contrappone, secondo Rosalind Krauss, la “fortuna” e la libera interpretazione della tecnica che modifica, e per certi aspetti contraddice, le condizioni e la natura stessa del supporto: dal flusso di immagini del film alla staticità del disegno. Come ha ricordato Carolyn Christov-Bakargiev, Kentridge — pur avendo interessi nelle più diverse tecniche — non apprezza “le pratiche innovative per sé, né le evoluzioni storiche nell’arte, nello stile o nella tecnica e preferisce l’obsolescenza”, e sottolinea il profondo significato di questa modalità aperta, espansa e processuale di ripresa del disegno per proiezione, che contiene le imperfezioni ma anche gli strati della memoria, contro l’“ottundimento” della società:
Nella sua arte la cancellatura è una metafora della perdita della memoria storica – dell’amnesia che inghiotte a livello sociale, ingiustizia, razzismo e brutalità. (…) Tuttavia la cancellatura – in contrapposizione al nitido tratto — è anche una metafora della sana contestazione delle certezze e dei preconcetti alla base dei rapporti umani e sociali nel mondo solo apparentemente più interattivo e democratico dell’èra digitale. La cancellatura mette in dubbio che qualsiasi affermazione definitiva sia in assoluto possibile.
Kentridge parla significativamente di una tecnica pre-cinematografica. O meglio, di una “cinematografia dell’età della pietra”, e il critico Rosalind Krauss sottolinea la “reinvenzione del medium cinematografico” attraverso la riscrittura di un nuovo codice linguistico e il recupero di una pratica artigianale perduta per sempre in epoca di programmazione computerizzata: Kentridge infatti, pur usando la tecnica di animazione fotogramma per fotogramma che registra le fasi successive del disegno, “non persegue il cinema come tale ma piuttosto costruisce un nuovo medium sul supporto tecnico di una pratica cinematica diffusa e di cultura di massa”.
In sostanza, secondo la Krauss, le animazioni di Kentridge sarebbero più affini ai flicker book, al cilindro rotante del fenachistoscopio, al taumatropio, cioè a quegli strumenti ottici oggi obsoleti che hanno primitivamente e rudimentalmente anticipato la registrazione di immagini-movimento. Questa la testimonianza diretta dello stesso Kentridge:
“La tecnica che adotto per realizzare questi film è alquanto primitiva. L’animazione tradizionale si avvale di migliaia di disegni diversi ripresi in sequenza per realizzare il film. Questo generalmente implica lavoro per una squadra di animatori e di conseguenza il fatto che tutto il film debba essere progettato in anticipo. Le immagini di base sono disegnate dall’animatore principale e le fasi intermedie sono completate dai disegnatori assistenti, mentre altri provvedono ai ripassi delle linee e alla colorazione. La tecnica che uso io consiste in un foglio di carta attaccata alla parete dello studio, mentre in mezzo alla stanza piazzo la macchina da presa, in genere una vecchia Bolex. Abbozzo un disegno sul foglio poi vado alla macchina da presa, scatto uno o due fotogrammi, modifico (marginalmente) il disegno, torno alla macchina poi al disegno, poi alla macchina e così via. In questo modo ogni sequenza, rispetto a ogni fotogramma del film, è un unico disegno. In tutto ci saranno in un film circa venti disegni invece delle migliaia che ci si aspetta. E’ una procedura più simile al fare un disegno, che al girare un film. Una volta elaborato il film nella macchina, il completamento, cioè l’editing, l’aggiunta di suoni, musiche e il resto funziona come per qualunque altro film”.
Le opere filmiche e grafiche di William Kentridge sono inscindibili dalla storia politica recente del Sudafrica: dal tema dell’apartheid, a cui dedica la lunga saga di Soho Eckstein, storia di un avido e cinico capitalista simbolo stesso della corruzione e della depravazione in una Johannesburg colpita dalle ingiustizie razziali e dallo sfruttamento del lavoro operaio nelle miniere.
Il personaggio che si contrappone a Soho Eckstein è il solitario e triste Felix Teitlebaum. Felix in Exile è stato realizzato nel 1994, anno delle prime elezioni democratiche in Sudafrica. Quando a Kentridge viene chiesto di elaborare in forma di esposizione le sue incisioni realizzate per la serie grafica Ubu Tells the Truth, aggiunge come elemento narrativo una figura umana nuda collocata dentro il profilo in bianco dell’ammasso informe del Re Ubu che si impossessa di tutte le forme di potere, con la testa a punta e pancia a spirale nello sfondo nero-ardesia di una lavagna. Ubu, emblema della crudeltà istituzionalizzata, diventa la “zona d’ombra” dentro di noi e dentro il Sistema (“la Struttura” avrebbe detto Julian Beck…) e di cui noi stessi siamo responsabili.
Questi disegni e queste incisioni sono diventati il nucleo centrale delle animazioni per lo spettacolo Ubu and the Commission of the Truth, in collaborazione con l’Handspring Puppet Company (1995). Si tratta di una violenta denuncia contro la situazione poliica e gli scontri razziali del Sudafrica prima delle elezioni.
La tecnica di animazione in questo caso, a differenza della modalità sperimentata per gli altri drawings for projection su Soho Eckstein, si arricchisce di ritagli grossolani di giornale, processioni di sagome scure come ombre applicate con colla e parti metalliche ai fogli, di disegni a gessetto bianco su carta scura e anche di filmati e altro materiali d’archivio che testimoniano violenze e repressioni, tra le altre quelle della polizia che munita di frusta, attacca la folla a Cato Manor nel 1960 o che assale un gruppo di studenti alla Witz University durante lo stato di emergenza nel 1980 e quelle della rivolta di Soweto nel 1976. La riflessione teatrale partiva dalle sconvolgenti rivelazioni emerse dalle udienze della Commissione d’inchiesta per la verità e la Riconciliazione in Sudafrica, creata con lo scopo di registrare le testimonianze degli orrori, degli abusi e delle violazioni dei diritti umani nel paese ai tempi dell’apartheid