Dalle installazioni al teatro.
William Kentridge[1] tra i più grandi artisti visivi mondiali, svolge un’attività artistica multipla sin dalla fine degli anni Settanta in Sudafrica: le sue opere spaziano dalle incisioni con tecniche diverse (puntasecca, acquaforte, acquatinta) ai disegni a carboncino, a gesso e pastello, ai collage, alle pitture, alle installazioni con sculture in bronzo, con mobili, arredi e schermi (che formano veri e propri teatrini in miniatura), ai film animati in 16 e 35mm, ai disegni a silhouette realizzati espressamente per i fondali teatrali. L’esposizione a Documenta Kassel nel 1997 e la personale alPalais des Beaux-Arts a Bruxelles nel 1998 ne decretano il successo mondiale.
La sua biografia è costellata di numerosi eventi legati al teatro: iscritto alla Ecole Jacques Lecoq a Parigi, scenografo attore e regista della Junction Avenue Theater Company e della Handspring Puppett Company di Johannesburg, allestisce opere dai testi di Tom Stoppard e Alfred Jarry. Famose sono le incisioni che costituiscono la serie Ubu tells the truth (1996-1997) andato in scena con la collaborazione di Handspring Puppett Company, i disegni per lo spettacolo Faustus in Africa (1995), per Confessions of Zeno (2002), per l’opera in musica Il ritorno di Ulisse in patria (1998) da Monteverdi; alcune fotografie inserite nel volume documentano l’installazione Preparing the Flute, un modellino teatrale con due film animati in 35mm con cui Kentridge reinventa il suo lavoro per le scenografie per l’opera Il Flauto magico da Mozart.
Ricordiamo soprattutto i Drawings for Projections, film animati muti realizzati da Kentridge a partire da disegni al carboncino e inaugurati con la fine degli anni Ottanta. Travagliato il lavoro di Kentridge davanti alla Bolex 16mm per creare sequenze animate composte da innumerevoli e minime variazioni e cancellature del disegno monocromo davanti alla macchina da presa, ci riporta al cinema delle origini, ai primi studi fotografici del movimento di Marey:
A differenza dell’animazione classica in cui per creare un solo secondo di filmato si realizzano ventiquattro disegni diversi su altrettanti fogli, per i suoi film Kentridge usa solo pochi fogli di carta che vengono ossessivamente disegnati, cancellati e ridisegnati a carboncino. L’artista parte da un largo foglio bianco appeso al muro e vi disegna la prima scena. Poi passa alla telecamera con cui riprende il disegno per pochi istanti. Quindi ferma la cinepresa e torna al disegno: lo altera con cancellature, aggiunte e sovrapposizioni anche solo infinitesimali, facendo evolvere l’immagine secondo la narrazione. E di nuovo torna a filmare il disegno, nato da una metamorfosi di quello precedente, di cui conserva la memoria[2].
Ma le sue opere sono inscindibili dalla storia recente del Sudafrica, dal tema dell’apartheid a cui Kentridge dedica la lunga saga di Soho Eckstein, storia di un avido e ingordo capitalista industriale simbolo stesso della corruzione e della depravazione in una Johannesburg colpita dalle ingiustizie razziali e dallo sfruttamento del lavoro operaio nelle miniere. Il personaggio che gli si contrappone è il solitario e triste Felix Teitlebaum.
Nel repertorio visivo di Kentridge le ombre sono un motivo iconologico costante e un vero topos, sviluppate nelle più diverse tecniche: dalle sculture in lamina nera di figure in sospensione tra le due e le tre dimensioni (addossate su muro o anamorfiche e disperse a frammenti nello spazio, e persino rotanti su un perno o riprese dalla telecamera/macchina da presa), alle processioni in silhouette di derelitti in marcia eseguite a collage con carta strappata (come in Portage, 2000), dalle sagome di figure nere di varie dimensioni inserite su arazzi fino ai ciclorama di profili neri su sfondo bianco o su pagine di libri e su carte geografiche, e infine alle proiezioni animate (Shadow Procession, 1999; Stair Processing Vertical Painting, 2000; Procession or Anatomy of Vertebrates, 2000).
I video, le installazioni e le opere filmiche animate di William Kentridge a partire da disegni al carboncino sono creati quali forme espressive aperte che si espandono verso inedite traiettorie artistiche, in una felice “conflittualità relazionale”: il video, come espansione del fatto grafico, diventa installazione, poi quadro scenico animato all’interno di uno spettacolo (come nel recente progetto ispirato al racconto Il naso di Gogol dal titolo I am not Me, the Horse is not Mine, 2008). L’effetto di ombre in movimento nel suo teatro (con una eco non incidentale al teatro giavanese, il wajang) è variamente combinato con le proiezioni video o filmiche, tecniche che insieme creano un gioco e uno scambio ininterrotto tra la parte frontale e quella retrostante la scena, entrambe spazio d’azione live sia dell’attore (o della marionetta) che della macchina (e del suo manovratore). Ultimo progetto portato al MAXXI di Roma è The Refusal of Time, in cui Kentridge realizza un collage di eventi e opere: film animati con una proiezione sincronica a cinque canali in cui si incastrano teatro, cinema, ombre, musica, scultura.
L’onda anomala innescata da artista politico come Kentridge, con il suo repertorio di figure nere in processione e di cortei di ombre animate, simboli di azione, resistenza e riscatto in un Sudafrica “riconciliato” all’indomani della vittoria dell’African National Congress di Mandela e della fine dell’apertheid, sta facendo scuola anche in territori non strettamente teatrali. Il motivo kentridgiano della processione di figure nere a mo’ di ciclorama e i video animati con sagome di carta, però con protagonisti schiavi, madri stuprate, sottomesse, uomini torturati (che sembrano a prima vista innocenti decorazioni che escono da lavori di découpage o dal cassetto di giochi dei bambini) sono al centro del lavoro della giovane artista afro-americana Kara Walker.
Il lessico dell’artista (quale si evince da tutte le sue opere nei più diversi formati e tecniche usati: acquarello, inchiostro o carboncino su carta, collage, figurine di carta su muro, o film in 16mm) è connotato da un voluto primitivismo (il film 8 Possible Beginnings on the Creation of African-America, 2006 e l’allegorico tableau composto da ritagli di carta neri su parete bianca The End of Uncle Tom, 1995 o la serie negativa con figure bianche su fondo neroExcavated from the Black Heart of a Negress, 2002) di cui parla Yasmil Raymond nel catalogo dedicato alla Walker My Complement, My Enemy, My Oppressor, My Love (2008).
L’epopea della negritudine passa dalla tratta degli schiavi alla guerra tra sudisti e nordisti, al colonialismo, dal racconto dello Zio Tom, allo sfruttamento razzista, alla proclamazione dell’emancipazione femminile. Walker raffigura atti indecenti di sesso mescolati ai segni del potere, la nascita con lo smembramento e tutte le pericolose derive dal desiderio alla procreazione: violenza, allattamento, dominazione (dell’uomo sulla donna, dell’uomo bianco sullo schiavo nero: le serie di acquarelli, disegni a matita e inchiostro Do you like Creme in your Coffee and Chocolate in your Milk? e Negress Notes entrambi del 1997). I suoi lavori con proiezione video, carte ritagliate e ombra (come in Darkytown Rebellion, 2001) sono ulteriormente esaltati dalla performance dal vivo con effetti luministici colorati. Dalle ombre ritagliate su carta e incollate alla parete, alle silhouette realizzate con il supporto di mixed media fino alla animazione dal vivo in direzione performativa. L’aspetto del teatro multimediale è legato infatti, alla creazione di alcuni video come piccoli teatrini, realizzati attraverso l’animazione manuale effettuata in diretta dietro uno schermo, delle figure nere ritagliate servendosi di bastoncini, a raccontare schiavitù infinite e oppressioni millenarie.