A marzo 2018 è uscito per la collana LINEE di Meltemi il volume monografico Memoria Maschera e macchina nel teatro di Lepage di Anna Maria Monteverdi.
La teatrografia di uno dei più importanti registi e interpreti contemporanei è raccolta in un libro di 420 pagine che sottolinea alcuni aspetti determinanti del lavoro scenografico, drammaturgico e interpretativo di Lepage in collaborazione con la sua compagnia Ex Machina e con lo scenografo Carl Fillion.
Qua l’introduzione di Fernando Mastropasqua:
Era il 2005 quando uscì in Italia, scritta da Anna Monteverdi, la prima monografia su Robert Lepage, uno dei maestri della regia contemporanea.
Canadese (Québec City, 1957), formatosi alla scuola di Lecoq, si è fatto conoscere in Europa con spettacoli di alto rigore stilistico e di innovativa ricerca tecnologica, come La trilogie des dragons, Polygraphe, Les aiguilles et l’opium, La face cachée de la lune. Anna Maria Monteverdi, che ha potuto accedere ai materiali d’archivio conservati a Québec nella sede della sua struttura teatrale e multimediale Ex Machina e seguire la produzione di spettacoli a Montréal, gli dedica questo secondo volume che ne tratteggia la complessa personalità e ricostruisce il multiforme itinerario della sua ricerca visiva, mettendone in rilievo sensi ed esiti.
In tale ritratto puntuale della sua attività, nel quale l’autrice non trascura il milieu del teatro contemporaneo del Québec né l’ispirazione sostenuta dalla conoscenza delle tradizioni sceniche europee (mimica, scenotecnica, improvvisazione, ecc.), emerge il ruolo fondamentale che Lepage riveste nella ricerca teatrale dopo la seconda avanguardia novecentesca, che ha avuto per protagonisti il Living Theatre, Grotowski, Brook, Wilson.
Il teatro di Lepage viene così, a buon diritto, inserito nella feconda dialettica del nuovo teatro, per le soluzioni originali e ancor più per le prospettive che inaugura riguardo i molteplici piani della invenzione, dalla scrittura scenica alla recitazione, dalla illuminotecnica alla tecnologia di scena. Particolare attenzione dedica, lo studio, alla macchina scenica per La face cachée de la Lune e alle metamorfosi della scena per Elseneur. Ne risulta indubbiamente un saggio storico sul nostro più recente teatro ma anche una discussione critica riguardo i più incalzanti problemi tecnico-formali della nuova scena.
A ragione rilevava Oliviero Ponte di Pino, nella Prefazione al primo volume di Anna Monteverdi su Robert Lepage (per BFS editore), che “l’argomentazione della Monteverdi fa piazza pulita di alcuni fuorvianti luoghi comuni, riconducendo l’uso della tecnologia alle origini del teatro, alla maschera, e dunque all’essenza profonda del fatto teatrale, alla sua dimensione rituale”. Si leggano i capitoli dedicati all’attore-specchio-macchina, all’arte come veicolo, al teatro-immagine, ai legami con il cinema, alla creazione infinita:
La realizzazione è dunque, sempre provvisoria per definizione. L’opera è sempre un non finito, lo spettacolo è sempre una questione di spazio e di tempo: quando è stata fatta e dove è stata fatta. Questo significa che anche dopo la prima presentazione pubblica la forma dello spettacolo continua a modificarsi, si evolve con le nuove idee, con motivi e con tematiche con cui l’autore viene in contatto. La forma, come affermava Carlo Ludovico Ragghianti in riferimento a ogni manifestazione del linguaggio visivo, si identifica col suo processo costruttivo.
Riguardo l’acceso dibattito intorno alla tecnologia a teatro, di particolare interesse il capitolo: “La tecnologia è la reinvenzione del fuoco”, nel quale, facendo propria una immagine dello stesso Lepage, l’autrice affronta il problema dell’uso delle macchine a teatro secondo una originale prospettiva che ampia l’orizzonte della discussione, il più delle volte confinato nella esaltazione o denigrazione delle attuali sperimentazioni. Lo sguardo si rivolge indietro, alle origini del teatro e invita a riflettere sulle contaminazioni che la poetica della macchina scenica produsse nel Novecento. E, ricordando in particolare Edward Gordon Craig, richiama la funzione che la luce da sempre ha avuto nella storia del teatro, dalla pietra ad arte levigata che proiettava ombre narranti se sapientemente illuminata dal fuoco, agli accecanti bagliori dei moderni generatori. Lepage pone la tecnologia in stretta relazione con una comunità di uomini che si ritrova a teatro: “All’inizio del teatro molti secoli fa, l’attore parlava, davanti a lui c’era il fuoco e dietro l’ombra […]. Il fuoco è stato rimpiazzato dalla tecnologia, ma la gente viene ancora a teatro per sedersi intorno al fuoco […]. Io devo reinventare l’utilizzo del fuoco ogni volta”.
La macchina, a teatro, invece di togliere umanità all’uomo è ciò che gli permette di riconquistare la dimensione perduta, nell’uso inconsulto e maniacale delle macchine del vivere quotidiano, che isolano ma non radunano, che distruggono memoria e narcotizzano.
Di nuovo, come per Antonin Artaud, per Julian Beck, per Gordon Craig, il teatro, anche per mezzo della sua tecnologia, si pone come “la casa dell’uomo” dalla quale è stato allontanato e alla quale inevitabilmente, sente di dover tornare.