Ammettiamolo. La Fondazione Carispe ci ha abituato a ben altre mostre. Contenuti e allestimenti originali, collezioni pittoriche memorabili, monografiche di fotografia d’autore, curatori eccellenti. Anche il multimediale è stato ben rappresentato sia dal recente live audio-video alla personale di Jacopo Benassi che dalla mostra Storie. Il cantiere della nazione il quartiere degli italiani” sull’Arsenale (2012).
Spezzini. 1797-1923. Volti di una città in trasformazione da poco inaugurata nella storica sede della Fondazione in via Chiodo, risulta, invece, profondamente deludente. Convinte che il fail sia sempre dietro l’angolo, che non tutte le ciambelle riescano col buco e soprattutto, che una caduta di tanto in tanto, aiuti a rialzarsi meglio, vogliamo provare a fare un intervento che nelle nostre intenzioni è lontanissimo dall’essere una critica fine a sé stessa. Diciamo, è un suggerimento a fini migliorativi, se non per questa mostra, magari per altre iniziative legate a temi così importante e che potrebbero (auspichiamo) essere ripresi in futuro: la città, i suoi abitanti, la sua identità storica, l’eredità culturale come bene comune. Argomenti a un tempo spinosi e importanti.
Certo, la città ha una sua anima, che è il prodotto di un insieme di fattori di difficile individuazione. Chi sono o chi erano gli Spezzini? Cosa significa appartenere a questa città? Le radici dell’essere spezzino si riconoscono in un periodo specifico, in una precisa fase storica, in un databile fenomeno di sviluppo urbanistico (o culturale)? Insomma esiste, parafrasando una nota comunità social, lo “Spezzino vero”?
A queste domande – che possono avere molte risposte diverse – Spezzini 1797-1923 non risponde.
In effetti la mostra/pocket non funziona né sul piano del concept né sul piano della comunicazione, proprio perché la domanda iniziale è sbagliata, o è mal posta: chi sono davvero gli Spezzini degni di nota, quali eventi la rendono così importante? La time-line con date e nomi snocciolati apparentemente senza alcun legame o criterio se non appunto, quello linearmente cronologico, ma in realtà composta da un affastellamento disordinato di dati, investe e non spiega. La narrazione storica è, naturalmente, sempre soggettiva e contemporaneamente presuppone un’assunzione di responsabilità: fatti, eventi e personaggi devono esplicitare le connessioni reciproche che è possibile e lecito riconoscervi. Si intuisce, ma non in maniera chiara e motivata, l’immutabile punto di vista arsenal-centrico della città accompagnato dalla visione ormai tramontata della storia disegnata da uomini illustri. Può darsi che la nostra impressione sia sbagliata e che i curatori della mostra, Marco Condotti e Riccardo Pioli, abbiano invece portato avanti alcuni contenuti, tralasciandone scientemente altri, seguendo una loro propria metodologia storico-critica che a noi però, non è arrivata.
Facciamo fatica a capire, dalla carrellata casuale di date e da una schedatura stile Wikipedia quale sia, per esempio, lo sviluppo urbanistico della città, quali le ragioni della sua crescita, il ruolo degli Spezzini e delle Spezzine anonimi/e, il motore sociale del tessuto urbano, il quartiere come espressione del connubio tra comunità e architettura. Da qui il nostro suggerimento più appassionato: quello di rappresentare la città come collettività, come dibattito aperto, come patrimonio condiviso dalla (o con la) comunità stessa che la vive e la abita.
“La storia siamo noi”, diceva De Gregori e in questo titolo di canzone c’è tutta la verità di una metodologia di ricerca oggi studiata in Università, che ha anche un bellissimo nome Public History e che affonda le sue motivazioni nella ricerca di nuovi punti di vista da cui guardare la storia affinché tutti i convitati siano rappresentati e possano avere voce. In questo guazzabuglio di eventi (di cui non mettiamo in dubbio né la veridicità né la cronologia), dove la Duse sta insieme a Alberto Picco nel 5 verticale del cruciverba a muro, la domanda su cosa cementifichi davvero la comunità, riaffermando l’identità (quale?), rimane senza risposta.
Gestire una mostra multimediale significa, inoltre, progettarne uno storytelling interattivo che renda il concept più efficace, ma l’opportunità a nostro avviso, non è stata colta; c’era invece, ad esempio, alla mostra sull’Arsenale del 2012. Ricordiamo quel semplice ma simbolico gesto con cui veniva attivata l’installazione: si digitava sulla tastiera il proprio cognome per vedere se, nei registri della base navale in mostra, ci fosse stato qualcuno di famiglia. Un gesto tecnologico che univa la memoria personale a quella collettiva, la storia della città all’individuo, rendendola presente.
Qua le televisioni messe a terra con le foto delle personalità illustri che passano (la quasi totalità di genere maschile) funzionano come uno schermo del pc con lo screensaver attivato che va per conto proprio. Una sala è interamente dedicata alla contessa di Castiglione, icona spezzina talmente nota da diventare effigie da magneti per frigoriferi e per tovagliette plastificate. Il video a lei dedicato con le foto e le voci narranti, sembra uscito dagli anni Ottanta se non fosse per l’ App di Intelligenza Artificiale applicata al volto della nota dama che la rende orrendamente parlante. Ma per dire cosa? Quanto della complessità e paradossalmente dell’attualità della sua figura emerge?
Mancando un filo conduttore tematico vero e proprio e venendo meno la tecnologia come elemento che aumenta l’emozionalità di un racconto e contemporaneamente lo struttura, la mostra Spezzini risulta un’ottima idea di base non sviluppata, una narrazione senza storia, poco coinvolgente e convincente oltre che, purtroppo, maldestramente raccontata.
Viene da chiedersi se siano proprio gli Spezzini i veri destinatari di questa mostra.
Enrica Salvatori (Prof.ssa Associata di Storia medievale e di Storia Pubblica Digitale, Università di Pisa)
Anna Maria Monteverdi (Prof.ssa Associata di Teatro e Media audiovisivi, Università Statale Milano),