La prima edizione del Pomezia Light Festival vuole essere anche un luogo di incontro e di scambio culturale sulle nuove frontiere dell’arte e dell’intrattenimento digitale, in cui le performance luminose hanno un ruolo primario. Le giornate del festival saranno ricche di incontri, workshop, masterclass in cui vari temi verranno affrontati dai grandi esperti in materia.
Pomezia Light Festival è il primo festival di light art dell’Agro Romano e uno dei primi della Regione Lazio. L’obiettivo di Pomezia Light Festival è quello di radunare nella cittadina alle porte dell’Agro Pontino artisti che utilizzando nuove e vecchie tecnologie e facciano della luce il loro mezzo espressivo. Sarà un evento articolato lungo due percorsi urbani tra Pomezia e Torvajanica. Lo spettatore si troverà immerso in una città i cui tratti sono stati modificati dall’intervento della luce. Dal 9 all’11 giugno 2017
Ci parlerà dei nuovi generi nati recentemente con il digitale, dalla glitch art alle performance interattive, videomapping ecc, Anna Maria Monteverdi docente di Culture digitali all’Alma Artis Academy di Pisa ed esperta di digital performance e video teatro.
Intervista a AMM
Da dove nasce il suo lavoro di ricerca sulle Digital Performance?
AMM: Appartengo a una generazione che
ha letto con entusiasmo Essere digitali di Negroponte e che ha creduto davvero all’arricchimento immaginativo e creativo che avrebbe offerto il digitale, oltre all’enorme potenzialità di socializzare saperi tecnologici con un intento se vogliamo, di controcultura a cui noi guardavamo con grandi aspirazioni non solo artistiche, pensando al lavoro del Critical Art Ensemble e al loro manifesto Cyber Rights now. Si fantasticava di un’espansione della musica, del teatro, della letteratura, della poesia in territori tecnologici tutti da esplorare, come già era accaduto decenni prima, con le esperienze di Nam June Paik ma anche con quelle successive di Laurie Anderson, Peter Gabriel, Metamkine.
Era l’epoca del primo manifesto sul virtuale in Italia (1993) Per una cartografia del reale redatto tra gli altri, da Antonio Caronia, Paolo Rosa, Mario Canali e Giacomo Verde in cui si parlava per la prima volta di nuova sensorialità, di pratiche interattive, di immersività ma anche della necessità di leggere queste esperienze tecnologiche come occasione di relazione, di nuove narrazioni da inventare e condividere, di meraviglia. Fu Paolo Rosa poi nel Rapporto confidenziale per un’arte interattiva e nel volume L’arte fuori di sé a spiegare meglio questi punti aggiungendo con grande chiarezza anche la necessità di una missione etica dell’artista tecnologico. Tutto questo bagaglio di sperimentazione di arte e tecnologia che ora è semplicemente storia, appartiene al vissuto di una generazione di artisti come Paolo Rosa, Giacomo Verde, Michele Sambin, Falso Movimento, Barberio Corsetti, Krypton, e poi in seguito Motus, Roberto Latini Tpo, Roberto Castello, che per una serie di coincidenze mi sono trovata a frequentare assiduamente come “osservatrice critica e creativa”, scrivendo per cataloghi, brochure, antologie, discutendone a conferenze: ho partecipato al loro mondo, quello delle innovazioni in quel settore che ancora non si sapeva come chiamare e che si sarebbe poi definito “teatro multimediale” e che faceva capolino indifferentemente dentro gallerie o nei centri sociali (il Link di Bologna, Interzona a Verona) o in Festival come Santarcangelo. Partecipavamo ai laboratori dell’Infomus di Camurri a Genova che in quegli anni aveva creato il software Eyesweb, per molto tempo il software più usato per la sperimentazione interattiva nel teatro e nella danza. Io e Andrea Balzola e in seguito Antonio Pizzo ne abbiamo scritto in diversi dossier che nel frattempo uscivano su varie riviste come Hystrio o Il castello di Elsinore, ampliando il territorio già aperto da Valentina Valentini, da Carlo Infante e pochi altri e nel volume Le arti multimediali digitali. Ho condiviso anche l’etica dell’hacktivism, parola creata da Tommaso Tozzi che univa termini come Hacker e Hacking. E vivevo quotidianamente tutti questi concetti come il Cyborg, il netstrike, l’hacker teatro, la net performance frequentando amici come Marcellì Antunez Roca, Antonio Caronia che era spesso a casa mia e del mio compagno dell’epoca Giacomo Verde, Paolo Rosa mi aveva selezionato nel 1994 come giovane critico per un’antologia su Studio azzurro e lui è stato davvero il mio vero mentore nel settore delle arti tecnologiche e del teatro. Se c’è qualcuno verso cui ho un debito profondo di riconoscenza è stato lui: per qualche tempo dopo la sua morte h pensato che la ricerca sulle arti tecnologiche (e il pensiero e la riflessione critica) in Italia avrebbe avuto una battuta d’arresto, venendo a mancare uno dei suoi padri riconosciuti. Pensavo che semplicemente la deriva tecnicistica avrebbe avuto il sopravvento. E in effetti qualcosa sta andando in quella direzione, vedi cosa sta succedendo alla Realtà aumentata. Ma dentro le Accademie e dentro le Università ci stiamo attrezzando affinché la formazione degli studenti sia non solo legata alla tecnica ma anche all’estetica e all’etica della comunicazione, seguendo il pensiero di Paolo e di Caronia.
CONTINUA sul BLOG di PLF
http://www.pomezialightfestival.it/blog/al-plf-anna-maria-monteverdi/