Lo spettacolo Non qui non ora (Not here Not now) di Andrea Cosentino unico interprete, ha debuttato al Fringe Festival a Napoli e continua a girare con successo in tournée. La Abramovic del Metodo Abramovic, di The artist is present,di Balkan baroque la “grandmother of performance art” come lei stessa si definisce, viene presa in giro dall’attore romano monologhista; in particolare Cosentino si concentra sia sulle storiche performance meditative sia su quelle estreme e anche violente in cui sfida i limiti fisici e psichici del proprio corpo.
Cosentino critica della Abramovic la riduzione operata negli ultimi anni, di quell’arte performativa “qui e ora” a “esperienza a pagamento” (secondo le stesse parole dell’autore). La Abramovic che si è consegnata alla storia con Biography remix, con “Life and death of Marina Abramovic di Wilson e con la famosa installazione antologica all’Hangar Bicocca del 2006, che ha mescolato arte e vita nella sua parabola di Body art, diventa un’icona ridicola nel travestimento di Cosentino. Che non risparmia sarcasmo neppure sul nasone posticcio e sui lunghi capelli neri che si applica e indossa per meglio somigliarle. La riflessione in chiave parodica, riguarda ancora, come molti spettacoli di Cosentino (primo fra tutti Angelica) il confine tra realtà e finzione. L’interrogativo sembra essere: è più falso il teatro o la performance art?
Di che si tratta esattamente e quando ti è venuto in mente di parlare di body art, arte concettuale prendendone in giro l’incontrastato guru?
Lo spunto per questo mio lavoro nasce da una visita al Padiglione di Arte Contemporanea di Milano, dove l’anno passato ho avuto occasione di assistere-partecipare al Metodo Abramovic, un’esperienza in cui si era invitati a stare un paio d’ore in diverse posizioni e su diversi supporti, con gli occhi chiusi e le orecchie tappate da una cuffia insonorizzante. In sintesi, credo si possa definire come una forma di meditazione trascendentale, niente di più e niente di meno. Se proprio devo essere critico verso questa operazione, è sul marchio: ribattezzare con il proprio nome delle pratiche che hanno storie e tradizioni millenarie non mi pare un gesto di grande umiltà e rispetto. È anche un po’ comico, a pensarci: mi esorti a fare il vuoto e liberarmi dal mio stesso io, nel mentre metti il tuo brand all’intera esperienza. Ma, che ci piaccia o meno, è il marketing. Dal video nel quale ci spiegava l’operazione cui ci saremmo di lì a qualche minuto sottoposti, Marina Abramovic diceva a un certo punto: “fidatevi di me, voi mi date due ore del vostro tempo, e io vi darò l’esperienza.” Naturalmente non citava i quindici euro del biglietto d’ingresso. Ci sarà da fidarsi? Ci scherzo su, ma vorrei fosse chiaro che la Abramovic per me è un pretesto per occuparmi di un contesto più generale. Che di lei si tratti, e non di altri, è dovuto al semplice fatto che è una specie di star, e dunque fatalmente più esposta a osanna e critiche. Uno degli aspetti che mi diverto ad indagare è appunto il rapporto a dir poco problematico che l’arte contemporanea intrattiene con il mercato. Per essere esplicita Marina avrebbe dovuto dirci: “Datemi due ore del vostro tempo, quindici euro, e io vi darò l’esperienza.” Suona male, no? Si scivola in un attimo dai territori del sacro e del trascendente a quelli del commercio e dell’intrattenimento.
Altro aspetto che mi interessa e mi diverte, e non a caso dà il titolo a questo lavoro, è la questione della performance, dell’esaltazione dell’evento, del qui e ora. E’ faccenda che riguarda il teatro non meno dell’arte contemporanea, salvo che ci si arriva da punti diversi. Loro hanno avuto la body art, da Yves Klein all’Azionismo Viennese a Gina Pane fino appunto a Marina e Ulay; noi Artaud, il suo teatro della crudeltà, la sua ricerca disperata e forse paradossale di un evento che non fosse il doppio di alcunché.
Il mio pregiudizio da teatrante è che il sangue sia una scorciatoia per l’obiettivo dell’autenticità. La martiriologia della body art mi appare, per certi aspetti, come una risposta troppo netta e in definitiva concettuale al problema del qui e ora. Nella mia pratica la presenza è conquista e articolazione di linguaggi. Per un clown ciò che esiste ed è reale non è il gesto né il corpo, ma la relazione che riesce a instaurare con gli spettatori. Io in scena travestito da Marina, sono forse meno presente perché indosso una parrucca e un nasone di plastica? È una delle mie ossessioni: la verità della finzione da contrapporre al reality, alla finzione della verità.
Naturalmente queste, ne sono consapevole, sono a loro volta semplificazioni. Ma sia chiaro, per chi potrebbe accusarmi di maltrattare la Abramovic con superficialità, ed è accaduto, che le mie semplificazioni sono il controcanto di una sua celeberrima affermazione, non certo generosa nei confronti del teatro: “Performance art is something very serious, is not theatre, is not entertainment; theatre is very simple: in theatre a knife is fake and the blood is ketchup. In performance art a knife is a knife and blood is blood.” Vorrei far notare che se rovesci i termini di questo ragionamento, la frase funziona altrettanto bene, se non meglio. Provare per credere. Ma non è neanche questo il punto. A ben vedere si tratta di quegli aforismi che suggestionano molto ma dicono tutto e niente, di quelle frasi sintetiche da social network, il cui successo è pari alla loro facile condivisibilità.
Credi che questa arte, anche se ormai storicizzata, abbia ancora proseliti, o viva in un mondo parallelo come il teatro borghese che, come mi dissi tempo fa, ha i suoi rituali e non morirà mai….
Ti risponderò con due frasette estrapolate dal testo di un mio recente spettacolo, dal titolo Pane ai circensi, una sorta di performance situazionista sui labili confini tra teatro e accattonaggio: “l’arte deve farti pensare? deve pensare al tuo posto? deve provocarti? vuoi essere provocato? se vieni qui con l’intenzione di essere provocato, come posso davvero provocarti?”
Il rischio dell’arte contemporanea, ma anche di un certo ambiente teatrale cui nonostante tutto appartengo io stesso, è che spesso si svolge e si consuma all’interno di un circuito magari molto evoluto e stimolante da un punto di vista emotivo e intellettuale, ma pur sempre un club privè tra adulti preventivamente concordi e consenzienti, e dunque senza una dimensione pubblica (per quanto a volte con una prorompente spinta pubblicitaria), e nessuna capacità di dialogare né tanto meno incidere nel sociale.