Pubblicato in Atti del convegno dell’ADI (Associazione Docenti di Italianistica), Università di Sassari, 2012.
Come hanno trattato o interpretato la materia e le visioni beckettiane gli artisti multimediali nelle loro installazioni, videoperformance e spettacoli tecnologici? E’ opinione comune che sia la stessa poetica di Samuel Beckett, così radicalmente altra rispetto ad una scrittura drammaturgica tradizionale, oscillante e sospesa in un tempo a-dimensionale, nella rinuncia all’illusione della comunicazione, nella negazione della possibilità di un raccontare, nell’inutilità di ogni agire, ad aprirsi ad apporti creativi altri, offerti dalla specificità del mezzo video e filmico.
Ersilia D’Alessandro ha parlato di una loro “vocazione cinematografica”, Avantaggiato di un Beckett “ultramediale”[1]. Non è solo il Beckett filmico e tele teatrale (da Film con Buster Keaton ai tele play ai radiodrammi: Ghost trio, Quad, But the clouds, Di’Joe) ad aver offerto notevoli spunti ad artisti video, quanto alcuni testi brevi che hanno avuto rarissime rappresentazioni teatrali per l’oggettiva impossibilità di messa in scena.
Si può parlare effettivamente, di una “vocazione all’immagine” di alcuni testi corti di Beckett (scritti dal 1963 al 1982) che, più ancora della nota produzione teatrale (Finale di partita, Aspettando Godot, Giorni felici) hanno offerto un ambito straordinario di sperimentazione video artistica (video creativa o video teatrale).
Si tratta di prose e testi teatrali dal minimo ingombro che si offrono quali rapide illuminazioni, pennellate di spessore concettuale e di esasperata bellezza. Per queste densissime miniature, di fulminante respiro, Beckett creò il neologismo di dramaticules a sottolineare la compressione drammatica che le sostanzia e la decaduta pretesa di qualsiasi io autoriale: Play, Come and Go, Breath, Catastrophe.
Dello stesso periodo (dal 1963 al 1972) sono alcune prose brevi in cui lo scrittore irlandese abbandona definitivamente la forma narrativa dei romanzi “adulti”, ritorna in parte al francese degli esordi, e imprime alla scrittura una vera e propria torsione sottrattiva (Trilogy, Not I, Comment c’est, All the strange away).
Pensiamo a Non io, monologo torrentizio dell’unico personaggio Bocca, in cui la testa della protagonista, come decollata, illuminata da un violento fascio di luce, secondo le indicazioni dell’autore, si staglia su un fondale di fitta e impenetrabile oscurità. Nei brandelli sconnessi del veloce monologo, affiorano frasi di una memoria drammatica che la protagonista assicura non appartenerle. Il passato che la donna maledice, spesso con toni di oscena e blasfema ferocia, è il ricordo di un dolore cosmico senza rimedio.
Pensiamo, poi, alla assenza pressoché assoluta di azione contenuta in Come and Go (la versione breve e al femminile di Aspettando Godot, in cui tre donne anziane sedute in una panca, sono in attesa di qualcosa da moltissimi anni e mantengono dei segreti che si sussurrano alternativamente all’orecchio) in cui emergono solo gli sgargianti colori precisamente individuati da Beckett per le vesti delle donne. In Breath Beckett arriva a immaginare una sola situazione scenica della durata programmata di 35 secondi.
Testi quindi, quasi refrattari alla scena, persino restii anche alla forma libro e che prevedono sotterraneamente, un linguaggio altro rispetto alla letteratura e al teatro. Mi riferisco per esempio, a Play e alla dinamica convulsa del racconto di un tradimento, scritto per tre personaggi secondo una logica da montaggio alternato. Il racconto prevede non “non stop”, un circuito infinito di parole (Repeat again è l’indicazione di Beckett per gli attori, quando ciascuna delle loro versioni termina).
E’ evidente quindi, un processo di definitiva spoliazione poetica, di scarnificazione linguistica in cui la parola sopravvive come reperto estremo, come elemento residuale di una comunicazione di per sé lacunosa e intermittente: questa è stata la fonte di ispirazione per un gruppo nutrito di artisti legati al video teatro, per la “nuova ondata anni Novanta” e per la nuovissima generazione di artisti multimediali che usano il video per produzioni creative autonome.
Il video sembra offrire una sorta di rimedio, un risarcimento, una soluzione creativa alternativa per visualizzare in forma di immagine, quell’universo beckettiano fatto di sintetiche o scarnificate partiture che hanno la densità e la forza della parabola. Si tratta talvolta di pochi suggerimenti scritti da Beckett più che di trame con indicazioni di movimento che implicano, sul piano della regia video, inquadrature e montaggio di grande precisione, costruite sull’attesa e sull’assenza, lunghi piani sequenza in cui la macchina da presa, sempre presente come “occhio belva” incarna un ruolo: quello della coscienza o della morte che incombe.
Anche in questi testi presi in esame, come nella più ampia produzione teatrale matura, le figure di Beckett sono in una condizione di immobilità (in Play dentro urne), di scacco, di prigionia soffocante autoindotta (All the strange away), in silenzio, in attesa, protesi verso il nulla. Atterrano nel fango (Come è), si rialzano ogni volta per riprendere l’andatura vacillante, inforcano le stampelle, si spostano su sedie a rotelle o sedie a dondolo (Passi), strisciano, annaspano, si osservano invecchiare e marcire (Come and go), si guardano andare in pezzi, tragici testimoni di un vuoto mai definitivo, mai risolutorio (“la morte stenta ad arrivare”).
Il corpo umano è accecato dalla luce abbagliante (All the strange away) imprigionato in una scatola di cui si danno ossessivamente le dimensioni, o di un sacco dove condividere vita e punizioni reciproche (Come è). Trasposte sul monitor queste partiture visuali accentuano i ruoli dei personaggi nella loro fissità spaziale e esasperano la condizione di ripetitività della loro esistenza senza via di fuga (Play) grazie a loop e ralenti, piani sequenza silenziosi e incombenti, primi piani soffocanti.
A Breath, sorta di grado zero della scrittura, testo-lampo della durata obbligata di 35 secondi, con luce intermittente e null’altro in scena se non cumuli di spazzatura, si ispira l’artista greco Nikos Navridis per l’omonima installazione video esposta alla 51a Biennale di Venezia e Damien Hirsh. David Mamet e William Kentridge guardano invece, a Catastrophe (1982, dedicato al drammaturgo ceco Vaclav Havel) per il loro omaggio video a Beckett. Un attore (Protagonista) è in piedi su un podio mentre, con l’aiuto di un Assistente, un Regista lo prepara per uno spettacolo teatrale che sembra non consistere in null’altro che nella sua stessa apparizione fisica. Viene trattato come un oggetto, spogliato, messo in posa. Della sua volontà non si tiene conto ed è a tutti gli effetti un manichino nelle loro mani, trattato come una vittima degradata e umiliata. Ma la fine è particolare: il regista chiede di illuminarlo per avere la sua “catastrofe” o conclusione. Mentre la luce è tutta su di lui, anziché rimanere immobile come da copione, l’Attore alza la testa spegnendo lo scroscio di applausi. Proprio con questo gesto finale egli riafferma, a un passa dal baratro, la sua dignità. I tre personaggi corrispondono ai tre ruoli nel potere di uno Stato: un dittatore, un servo che obbedisce ed esegue gli ordini, il popolo che subisce e poi si ribella. Il teatro svela la gerarchia della società.
Il cortometraggio di Mamet con l’interpretazione di Harold Pinter (Director), Rebecca Pidgeon (Director’s Assistant) e con l’ultima toccante apparizione di John Gielguld (Protagonist) fa parte del progetto Beckett on film (2000) prodotto da RTE, Channel 4 e Irish Film Board, presentato al 57° Festival del Cinema di Venezia nella sezione Nuovi Territori. La storia si svolge dentro un teatro tra ombre inquietanti e fari di scena. L’anziano attore ha ancora la forza, nel finale, di ribellarsi.
Monument (3’,1990) di William Kentridge è il secondo cortometraggio della saga di Soho Eckstein. La tecnica di animazione usata è quella usuale di Kentridge, lo stop motion, ovvero una successione di immagini filmiche di fasi diverse del disegno a carboncino realizzato appositamente per raccontare la storia. In questa come in altri episodi della saga, la tematica affrontata è quella della storia postcoloniale del Sudafrica, degli orrori del capitalismo e dell’apartheid, complice questa volta, la simbolica trama beckettiana della relazione di potere tra Regista-Attore-Assistente. Monument è stata esposta come installazione alla Tate Gallery.
Nel 1968 Bruce Nauman, esponente dell’area concettuale americana e tra i pionieri della videoarte statunitense insieme con Dan Graham e Peter Campus, crea Beckett Walk o Slow Angle Walk. Si tratta di un’opera video-performativa che mostra il dispositivo video nella duplice funzione di processo e immagine spazializzata. In Beckett walk una telecamera fissa collegata a un monitor per ciascun lato di uno spazio architettonico quadrato che si sviluppa in altezza, riprende dall’alto la persona che ne percorre il perimetro. I suoi movimenti non sono naturali: Nauman realizza una sorta di happening o performance mediatica ripetitiva, a loop: il performer con le mani dietro la schiena alza una gamba a 45 gradi e la lascia poi ricadere a terra con grande rumore.
Comportamenti bizzarri, rovesciamenti del corpo che vengono ritagliati nella scatola del monitor e che contrastano con quel geometrico percorso obbligato che regolamenta il suo tracciato nello spazio. Come ricorda Valentina Valentini: “Non è gratuito il riferimento a Beckett, che è stato un incontro importante per Nauman, perché in entrambi il linguaggio è un elemento che trova in se stesso il proprio fondamento, non sta al posto di…, non è uno strumento espressivo legato alla dimensione soggettiva e intersoggettiva di locutori e perlocutori”[2].
Natalia Antonioli regista teatrale toscana con un background di studi filosofici, ha percorso per un’occasione specifica nel 1999 (il Premio Autore Donna) l’itinerario beckettiano con una serie di installazioni video e sonore che risultarono vincitrici della sezione Nuove Proposte. L’autrice nel catalogo curato da Marina Corgnati, le definisce “microregie”, concertazioni installattive dalla durata minima, quasi istantanea, seguendo scrupolosamente le indicazioni beckettiane per i suoi dramaticules.
Passi è realizzato come un tracciato di scritte bianche con correttore (frasi dal testo stesso di Beckett) su materiale plastico scuro posto a terra a formare gli otto numeri del gioco infantile della campana. Il gioco non termina mai perché ricomincia sempre, e così è per la voce registrata associata all’installazione: un cadenzato ripetere delle parole beckettiane per bocca di bimba. Tra le installazioni spicca senz’altro la resa video-letterale di Ohio Impromptu. Il tavolo con due sedie e due monitor propone un dialogo impossibile e infinito tra Ascoltatore e Lettore, tra Io e Non io: un interlocutore assente – simboleggiato dalla neve del televisore non sintonizzato – e un video-braccio che comanda ma dà regole non ascoltate.
In tutte le installazioni i frammenti del testo originario sono sparsi in forma di sasso o cemento inciso (Giorni felici III), di carta ghiacciata (Quella volta), accartocciata, di ritagli di singole minuscole lettere ricomponibili a scelta da chiunque secondo il meccanismo della casualità. Il teatro è dietro un’unica immagine che condensa, “ghiaccia” quell’istante, “quella volta” e si concede ma per tracce fossili, all’archeologo-visitatore. Metronomi a battere il tempo per nessun strumento, voci inabissate che si disperdono dentro coni metallici, vetri che accolgono bocche afone, corpi smembrati dall’occhio della telecamera, dondoli dal movimento inarrestabile, giochi della morte e giochi dell’infanzia.
I monitor isolati, gli oggetti casuali, le sequenze narrative monche sono lì a sostituire attori e trama e a testimoniare un’assenza imprecisata o un’attesa infinita. L’installazione è infatti, una scena provvisoriamente abbandonata, laddove una presenza umana si è dileguata e ha lasciato ombre elettroniche e guanti in lattice, borsetta, ombrellino e collana di perle. Nella dimensione irricostruibile e indecifrabile del luogo e della storia, nella negazione del tempo e contemporaneamente nella resa di “creature in fuga”, il senso di un Beckett messo per una volta in mostra e non in scena.
Studio azzurro nel 2004 ha firmato le scenografie digitali per Neither. All’opera musicale per soprano e orchestra concepita da Morton Feldman nel 1976, Beckett aggiunse su commissione dello stesso compositore, il libretto. Feldman chiese infatti a Beckett per l’opera, la “quintessenza” della sua poetica, che fu prontamente consegnata in forma di un pugno di righe come una sorta di suprema astrazione o distillato del suo pensiero, intorno al tema universale dello stare al mondo, in una condizione sempre oscillante tra l’io e il non io.
Studio Azzurro sceglie una dimensione evocativa quasi surreale, sorretta da pochi oggetti in formato video digitale, che rimandano al mondo beckettiano: un dondolo, l’uccello in gabbia, un uomo nel letto, l’albero, le scale, una porta semiaperta che non è retta da alcun muro, una lama di luce in un palcoscenico vuoto, quel teatro secondo le stesse parole di Paolo Rosa, simbolo di nessun luogo e insieme crogiuolo di tutti i luoghi possibili.
Waiting for Godot sbarca su Internet nel 1997. Presentato al Digital Story Telling Festival. Waiting for Go.com è uno spettacolo di teatro on line con uso delle chat room e con personaggi interpretati da utenti collegati in quel momento; icone grafiche rappresentano non solo Didi e Gogo (Estragone e Vladimiro) ma anche altri personaggi improbabili come Mister Muscle, che si inseriscono ogni qual volta entra un nuovo utente; Waiting for Go.com ha un suo ambiente visivo offerto dalla piattaforma Palace.com che non è altro che il palcoscenico virtuale della rappresentazione. Del testo non rimane pressoché nulla se non alcune suggestioni dei personaggi. Il pubblico era costituito anche dagli spettatori reali del festival grazie a video-proiezioni. Nel resoconto on line sul sito della compagnia, dal titolo Clicking for Godot l’autore Scott Rosenberg esalta la nascita di un genere, il digital puppet theatre in un nuovo teatro on line, le cui modalità di (non) comunicazione rimanderebbe proprio al tema dell’assenza in Beckett:
IIn Aspettando Godot nulla accade per due volte in ciascuno degli atti. Nelle chat rooms nulla accade la maggior parte delle volte, le persone si ritrovano ogni sera e aspettano per lo più che accada qualcosa, che qualcuno dica qualcosa di interessante, che un diversivo gli aiuti a passare il tempo.
L’artista multimediale e musicista Roberto Paci Dalò creatore della compagnia Giardini Pensili si è dedicato a Beckett in un paio di occasioni: la prima volta con l’installazione visiva e sonora Beck/ett realizzata a Castel Sant’Elmo per la grande mostra dedicata al Living Theatre e curata dalla Fondazione Morra, con la voce campionata di Julian Beck. Nel 2006 ha dato vita a uno spettacolo videopoetico (altrimenti definito dall’autore “esecuzione scenica”) di notevole valore a partire dall’ultima produzione poetica di Beckett e interpretato da Gabriele Frasca e Patrizia Valduga, a loro volta poeti (e traduttori) in scena insieme a una giovane attrice francese, Caroline Michel. Qual è la parola si regge su atmosfere rarefatte, trasparenze, voci sussurrate o disperse, parole inanellate a suoni e immagini evocative, in una composizione fragilissima e intensa, sottoposta a un trattamento digitale in diretta. Proprio il digital live è quella modalità – più volte sperimentata da Giardini Pensili – che rende la tecnologia stessa significativo evento poetico in sé.
Un originale omaggio in video ispirato a Not I, monologo del 1972 di Beckett, è quello di Mald’è, giovane compagnia campana video/teatrale di Matilde de Feo e Mario Savinio. Il video di 11’ (che ha una forte pregnanza visiva, e aderenza alla poetica beckettiana e un’ottima realizzazione tecnica), è una cascata ininterrotta di parole dallo strano personaggio di Bocca (interpretata dalla stessa De Feo). Bocca va a occupare un angolo di un ambiente elettronico caratterizzato da un biancore abbagliante e da cui emergono a tratti, segni grafici esplosi e frammentati, fonemi vomitati, risucchiati e poi sparsi ancora nel vuoto elettronico. Dalla bocca “reale” ma isolata dal contesto corporeo, si passa a quella digitale, una macchia rossa che mentre parla si sfalda, si sdoppia, si sovrappone in un’infinita metamorfosi elettronica. Riconoscibile sempre più a stento come un organo fisico scompare affogato nel bianco, quel bianco accecante che domina molta parte della produzione beckettiana.
Atto senza parole I di Carlo Caprioli e regia di Enrico Maria Lamann è stato presentato a Film Maker di Milano e al Lodi Film Festival del 2005. Carlo, figlio di Vittorio Caprioli interpreta col video quell’invisibile potere che regge i fili, guida gli oggetti della sopravvivenza e quindi il destino dell’uomo nel deserto in cerca dell’acqua continuamente sottratta. E’ un’entità lontana che governa gli eventi muovendoli virtualmente da un non meglio precisato mondo parallelo fantascientifico, indossando data glove e virtual eyes. I limiti spaziali non oltrepassabili dall’uomo sono dati dal campo stesso dell’inquadratura. L’uomo è prigioniero dentro il video, dentro la scatola quadrata del monitor. Da lì il protagonista non può uscire, prigioniero senza scampo in un deserto bianchissimo e in uno schermo al plasma.
La luce bianca torna ancora a infierire e annulla i contorni delle cose, disintegrando qualsiasi apparenza antropomorfa nel muto deserto siderale materializzato da Beckett in All strange away. A questo si ispira il video di Motus A place (that again). La compagnia si cimenta in un tratteggio di corpi evanescenti come ectoplasmi che nella loro liquefazione di fronte al bianco totale, diventano figure simili alle pitture di Bacon. E’ in scena e in video l’ossessione della fine descritta esemplarmente con un minimalismo d’immagine agghiacciante. Dalle note della produzione video di MOTUS:
Azione. Un luogo, ancora quello. Mai un’altra domanda. Un luogo. Poi qualcuno, ancora quello. Ancora le sue scarne parole che ci perseguitano come quella luce abbagliante che invade e folgora. Ovunque. Ancora quello spazio vuoto. Bianco assoluto. Dove tutto si vede. In cui tutto precipita. Senza alternative. All strange away. Diabolico tentativo di fermare il tempo, di dilatare l’istante del trapasso, definitivo, verso il momento in cui “nessun rumore di respiro è percepibile”. Immagina solo carne silenziosa. Mangiata dallo sguardo. Occhio belva. Che cerca negli angoli senza ombra. Il video indaga nelle pieghe della pelle. Con rigore scientifico. Espone. Così è la morte o meglio, così è la caduta secondo BECKETT.
Il bianco elettronico è il non luogo beckettiano. Dove affogano i pensieri sessuali, le memorie del personaggio. Come ricorda Mussapi “nell’antinferno beckettiano non c’è grido, non c’è richiesta di ascolto, perché tutto avviene dopo il corso del tempo, di cui sussistono illusorie dilatazioni dell’istante, spasimi molecolari della durata, movimenti microscopici di una immobilità ormai in fase di definitivo assestamento come lava ormai solidificata”[3].
[1] L. Avantaggiato, MultiBeckett. Samuel Beckett tra vecchi e nuovi media, in “Biblioteca teatrale”, n. 81-82, 2007.
[2] V. Valentini, Corridoi, labirinti, soglie: come mettere in gioco lo spettatore, in Dal vivo, Roma, Graffiti , 1996.
[3] L. Mussapi, Postfazione a Beckett, S. ,Quello che è strano via