A detta delle cronache di queste settimane, il debutto di Mistero buffo di Dario Fo, recentemente scomparso, avvenne alla Spezia, oggi nota più per il terminal crociere che per il teatro. E la data, confermata anche dall’archivio multimediale on line di Fo, risulterebbe il 1 ottobre 1969.
Molti giornalisti mi hanno chiesto se avessi documentazione dell’evento, questo perché pare che il luogo dove il Grammelot ha “parlato” per la prima volta, sia stato il Teatro Monteverdi, fondato nel 1929 dal mio bisnonno Luigi Monteverdi. Non ho documentazione perché nel caso, all’epoca il Teatro era stato già ceduto a privati e poi rimase chiuso dal 1978 fino al 2000.
Sarebbe un ricordo bellissimo per gli spezzini, di tale importanza da considerare di mettervi una targa a memoria dell’evento: evidentemente all’epoca il teatro alla Spezia funzionava, c’era un direttore artistico e nessun ricorso vinto da intelligenti teatranti ma disatteso.
Dunque alla Spezia nel 1969 Dario Fo, nel 2016 Masha e Orso.
Ma parliamo del Monteverdi: l’edificio, vincolato dalle Belle Arti per le pregevoli sculture rappresentanti le Muse dell’artista Carmassi, per i raffinati corrimano in ferro battuto in stile Liberty, è rimasto come testimonianza di un teatro-comunità che oggi non esiste più.
Il quartiere popolare dove era collocato (Piazza Saint Bon) affollava l’enorme teatro durante le serate d’avanspettacolo con Rascel, la Wandissima, Josephine Baker, ma anche durante i concerti di Duke Ellington e i gettonatissimi combattimenti di boxe.
Oggi è un parcheggio multipiano ma anche grande magazzino di vestiario made in China. Qualcosa del Monteverdi è rimasto, sì, nel nome: lo “shopping center” si chiama, Nuovo Mondo-Galleria Ex Teatro Monteverdi. Meglio di niente. Così con questo pezzo di China che non è affatto lo scenario di The dragon’s trilogy di Lepage (anche lì l’ambientazione era un parcheggio che aveva cancellato il negozio di scarpe dei protagonisti), soccombe l’ultimo pezzo di memoria teatrale della città.
Il mio primo libro (La maschera volubile, ed. Titivillus) aveva come copertina il Teatro Monteverdi da una foto di Luca Fregoso, già distrutto e con una curiosa macchina sul palcoscenico; Daniela Niccolò e Enrico Casagrande cioè i MOTUS mi rivelarono che fu proprio quell’immagine del Monteverdi a suggerir loro la scenografia de L’Ospite.
L’idea di costruire un teatro non fu proprio di Luigi ma del figlio, Balduino Monteverdi, ambizioso comandante dei bersaglieri, appassionato d’arte e di cultura. Luigi che fece fortuna in Uruguay, tornando alla Spezia divenne impresario edile, comprò un grande terreno da un lotto napoleonico e costruì 18 palazzi con strade annesse. E costruì anche il Teatro che aveva una capienza di oltre 3000 posti (anche se iperbolicamente veniva chiamato il teatro dei 5000), uno dei più grandi teatri del centro Italia con il palcoscenico di 24 metri di altezza e 12 di profondità, due ordini di gallerie e loggione. Ho ereditato da papà una bellissima pergamena del 1928 ad opera del pittore futurista Eugenio Brandolisio che le famiglie notabili spezzine vollero regalare al mio bisnonno, in segno di riconoscenza per la fondazione del Teatro.
Mio padre Carlo (detto Carletto), classe 1913, studente in medicina, fu l’ultimo direttore del teatro; incarcerato dai tedeschi al Ventunesimo da cui evase con una rocambolesca fuga, fu insignito della medaglia al valore come partigiano. Mamma aveva conosciuto papà perché era la figlia del proprietario della Trattoria del Teatro; si sposarono nel dopoguerra. Si racconta che per l’Aida ebbero l’idea di far entrare veri elefanti di un circo che era in città. Mi è venuto in mente pensando alle mancate scimmie nel terzo atto dello spettacolo di Castellucci a RomaEuropa. Tempi di elefanti in scena, e di follie d’avanspettacolo. Papà passò dei guai giudiziari perché all’epoca della rivista, per creare un po’ d’ effetto, Walter Chiari fece levare il “reggipetto” alle ballerine.
Non mi interessa immaginare come poteva essere recuperato un teatro storico che ha ospitato la rivista, il varietà, i primi incontri di pugilato, il cinema e poi in seguito, i concerti rock formando culturalmente tre generazioni di spezzini, forse anche la famiglia dei due sindaci Pagano e Federici. Rimane la soddisfazione che se Dario Fo qua ha debuttato, avrà regalato agli spezzini un po’ di quella bellezza che burocrati e amministratori in maniche da ragioniere non sono in grado di comprendere.
Meglio il turismo, le crociere, e tante auto.
Resta l’amara considerazione che alla Spezia avevamo un bel teatro, grande e con un’acustica straordinaria, che ricopriva una funzione sociale, in un quartiere popolare e storico e ce lo siamo giocato per una manciata di posti auto e vestiario made in China.
Mi fa paura un mondo che non sa che farsene di un teatro.