Abstract: Nella prima settimane di quarantena a causa del virus, stavamo dedicando le lezioni on line ad Amleto, quando ci siamo accorti che, reclusi nella nostra Danimarca-prigione, eravamo Amleto. Una mail del 18 marzo ci ha ispirato: un videomessaggio di Bob Wilson che ci suggeriva come leggere il nostro terribile tempo con Shakespeare e ci esortava ad andare avanti con tre frasi pronunciate da Amleto. La prima è quella con cui lui stesso apriva il suo Hamlet a monologue nel 1995: If I had time (ripetuto dal principe di Danimarca tre volte) e che corrispondeva a una delle frasi finali della tragedia, la seconda è quella di Amleto a Ofelia Don’t doubt I love, la terza è quella rivolta a Orazio quando tutto si è concluso, The rest is silence.
In quest’epoca di pandemia, quando molte azioni sono state fatte intempestivamente, è giusto chiederci quale tempo abbiamo mancato. E quando non c’è più niente da fare, chiediamo che almeno i morti non muoiano da soli. E invano.
Se avessi tempo- If I had the Time
I could tell you a thing or two if I had the time (though this cruel officer, Death, doesn’t allow much free time). Let it be.—Horatio, I’m dying. You’re alive. Tell everyone what happened; set the story straight. Hamlet
Queste sono le parole che pronuncia Amleto poco prima di morire e affida a Orazio il compito di raccontare la sua storia. La morte che incombe non gli permette altro che diventare protagonista di una tragedia di cui Orazio è stato muto e impotente testimone: lui avrà il duro compito di spiegare quale tempo è mancato. Non c’è più tempo. A dirlo in un video sono gli infermieri e i medici della sezione Infettivi dell’ospedale Sacco di Milano, impegnati in prima linea insieme ai medici nella battaglia contro il coronavirus.
Non c’è più tempo, non abbiamo più posti letto dove ricoverare le persone, siamo costretti a riutilizzare i dispositivi di protezione personale perché scarseggiano e in molte realtà quelli disponibili non sono idonei. Sappiamo di rischiare ogni giorno il contagio oltre a vivere la paura di portare il virus nelle nostre case”. (Milano, 16 marzo, askanews)
Bob Wilson nel suo Hamlet a Monologue fa cominciare la tragedia con questa stessa frase If I had time poco prima della morte del protagonista; la storia che viene racconta è già accaduta:
“It started just before he dies, and ended with his last speech. This one second before he dies, one sees the whole play, the whole life”.
Amleto sta morendo e in pochi secondi rivede la sua vita in un flashback, riannodando i fili, trovando simboli, persone, relazioni. Quel flashback lo rende così umano, così triste, così malinconico, così vicino a noi.
La caratteristica del suo Hamlet non è la variazione della trama, ma è l’abolizione della trama stessa all’interno della più generale abolizione del tempo della storia.
Tutto è presente contemporaneamente: passato e futuro.
Amleto è morto e sta per morire, soffre per una tragedia che non è ancora avvenuta: nella compressione del tempo della storia, l’intera azione drammatica viene espressa sinteticamente nel corpo di Amleto, futura vittima sacrificale in cui passato e futuro si sommano trasformandolo in un essere che questo è stato e questo sarà.
Ricorda Roland Barthes nella lettura del ritratto fotografico scattato da Alexander Gardner al condannato a morte Lewis Payne (1865).
“Qualcosa nella foto che osserviamo è stato e non è più. Dandomi il passato assoluto della posa (aoristo) la fotografia mi dice la morte al futuro. Fremo per una tragedia che non è ancora accaduta”.
L’inizio è anche la fine: Peter Brook fa iniziare il suo Hamlet con l’apparizione del fantasma del padre in carne ed ossa, un padre che vuole vendetta, un padre che conosce le conseguenze delle sue parole. Porge la mano al figlio, in un gesto simbolico di nascita e lo abbraccia teneramente come per un commiato di morte.
“Vai a dormire, tanto non muoio. Devo solo trovare la posizione”. Ma Diego non si è più svegliato. Erano le 3.30 della notte tra venerdì 13 e sabato 14 marzo. Due ore dopo, alle cinque e mezza del mattino, la moglie – volontaria alla Croce Rossa di Seriatte -, tornando in camera lo ha trovato in fin di vita. Diego operatore del 118 di Bergamo se ne era andato a 46 anni per coronavirus.
Ofelia e gli incidenti di percorso.
“Doubt thou the stars are fire; Doubt that the sun doth move; Doubt truth to be a liar; But never doubt I love
Amleto morirà sotto i colpi di Laerte, il vero vendicatore della tragedia shakespeariana e soffrirà le conseguenze degli “effetti collaterali”: Ofelia diventata folle per l’abbandono e vittima predestinata della altrui malvagità, si lascia andare all’incontro ultimo con la natura annegandosi. La macchina della Storia si mette in marcia travolgendo tutti, colpevoli e innocenti. La morte di Ofelia è la tragica e sofferta risposta al più straziante dubbio di Amleto.
Le morti “scomode” sono gli incidenti di percorso nella catena dell’epidemia: nel giro di una ventina di giorni dall’inizio del contagio l’Italia supera la soglia dei 10 mila contagi in Lombardia, focolaio dell’epidemia:
“I dati sulla mortalità si vanno approfondendo con le cartelle cliniche dei deceduti: i pazienti morti con il coronavirus hanno una media di oltre 80 anni, 80,3. L’età media dei deceduti è molto più alta degli altri positivi. Il picco di mortalità c’è tra 80-89 anni. La letalità, ossia il numero di morti tra gli ammalati, è più elevata tra gli over 80” (comunicato della Protezione civile 8 marzo 2020)
Il quadro estremo causato dal contagio, secondo la Società scientifica, «comporta di non dover necessariamente seguire un criterio di accesso alle cure intensive di tipo “first come, first served”» (si assiste per primo chi arriva prima). Al Punto 3 delle Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivisi legge che in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili: «Può rendersi necessario porre un limite di età all’ingresso in terapia intensiva».
All the rest is silence
“Sai qual è la sensazione più drammatica? Vedere i pazienti morire da soli, ascoltarli mentre t’implorano di salutare figli e nipotini. I pazienti Covid-19 entrano soli, nessun parente lì può assistere e quando stanno per andarsene lo intuiscono. Sono lucidi, non vanno in narcolessia. Muoiono nel silenzio“. Francesca Cortellaro, medico primario del pronto soccorso dell’Ospedale San Carlo Borromeo:
Nella versione di Nekrosius della tragedia di Shakespeare l’immagine potente del fantasma del padre di Amleto appare in due modi distinti: trasfigurato nel lampadario di ghiaccio, le cui candele poste ravvicinate sgelavano sotto gli occhi di un Amleto incredulo, impaurito; e nel momento finale in carne ed ossa, contrariamente a quanto scrive Shakespeare.
La verità richiama una vendetta che deve compiersi, affinché il ghiaccio sgeli completamente. E glaciale e cupa è l’atmosfera generale, i personaggi si passano blocchi di ghiaccio, Amleto muore congelato nella pietra del dolore.
L’immagine del lampadario è una lama metallica che scende dal soffitto sulla cui superficie cadono le gocce di ghiaccio risuonando terribilmente e vaporizzando nell’aria. Riappare nel momento del monologo To be or not to be e alla lama si unisce un lampadario formato da ghiaccioli e candele. Amleto esita se stare dentro il suo perimetro e lasciarsi bagnare dalle gocce d’acqua del ghiaccio che si fonde al calore. Prendere o no questo fardello sulle proprie spalle? Agire, o uscire dal cerchio dell’assassinio che richiama altri assassinii? La terribilità associata a questa immagine è data dall’urgenza: non c’è più tempo, il ghiaccio si scioglie, le candele si stanno consumando. Occorre agire ora.
Nekrosius elimina dalla scena finale Orazio; tuttavia non ci sta a far morire Amleto da solo, e interviene la piètas latina. Il padre che non è mai apparso fisicamente in scena, entra, abbracciandolo e trascinandolo via. Ma prima prova a instillargli calore, a farlo tornare in vita come con un massaggio cardiaco, il pugno precordiale: il tamburo che Amleto ha in grembo non risuona più ma il vecchio re prova in tutti i modi a farlo tornare in vita. E alla fine, impotente di fronte alla morte del figlio, consapevole di essere stato la causa della sua morte, non gli resta che un urlo muto.
(Ringrazio il mio studente Severyan Tsagareyshvili per avermi ricordato questo momento della tragedia, così significativo e originale)
“Uno dei due pazienti di Bergamo contagiati dal coronavirus e trasferiti al Policlinico di Bari è morto durante la fase di trasporto. Lo comunica il direttore del Policlinico di Bari Giovanni Migliore: “E’ andato in arresto cardiaco e, nonostante le manovre dei rianimatori fatte sulla pista di atterraggio, è deceduto” (Ansa, Bari, 18 marzo).
Non lasciamo che sia morto invano –Chi racconterà la nostra storia?
In questo mondo feroce respira con dolore per raccontare la mia storia (Amleto)
Il dott. Li Wenliang che lavorava come oculista in un ospedale di Wuhan, rivelò per la prima volta in una chat l’epidemia nel dicembre 2019 curando dei malati gravi di polmonite (dalle cause ignote) che avevano la congiuntivite, ma la polizia di Wuhan lo accusò di diffondere notizie false anziché allertarsi per verificare quell’ allarme (erano ancora in tempo a fermare il contagio). Ci vollero alcune settimane perché il regime riconoscesse l’esistenza dell’ epidemia, scagionando Li dalle accuse. Il medico continuando a svolgere la sua attività, si è ammalato ed è morto il 6 febbraio. Viene lanciato l’appello «Non lasciamo che Li Wen Liang sia morto invano». Tra i firmatari ci sono il professor Tang Yiming, capo del Dipartimento cinese della Cina centrale della Normal University, che si trova a Wuhan, il centro dell’epidemia. “Se le parole del dottor Li non fossero state considerate inutili voci e se ogni cittadino avesse il diritto di dire la verità, forse questo disastro nazionale non si sarebbe verificato, colpendo la comunità internazionale[2]. In questo appello si chiede «il rispetto della Costituzione, che (in teoria) garantisce la libertà di parola».
Si chiede di fissare il 6 febbraio, il
giorno della morte del medico, come “Giornata della libertà di parola”.
[1] Il coronavirus, in gergo medico 2019-nCoV, è stato identificato per la prima volta alla fine dello scorso anno nella città di Wuhan, nella Cina centrale.
[2] Informazioni tratte da Asia news 7-2-2020