Nicoletta Armentano affida alla rete in un bel saggio accademico, la sua riflessione sul lavoro registico legato all’imagine video, di Lepage per l’opera di Hector Berlioz La damnation de Faust di cui pubblichiamo un breve stralcio e lasciamo ai lettori il piacere di leggere l’integrale:
“Lepage si avvicina al lavoro di Berlioz con molto rigore: filologico, quasi. Non ci sono tagli né interpolazioni. Persino i cori finali di bambini i quali, come sostiene Henry Barraud, spesso «brillent parleur absence» sono presenti. Lepage debutta come regista d’opera nel 1993 con l’allestimento de Il Castello del Duca Barbablù di Béla Bartók e di Erwartung di Arnold Schönberg. Un debutto che nel misurarsi con i vari codiciche interagiscono nel genere operistico lasciava trasparire un en-tusiasmo tale da portare Lepage, già nel 1999, a un altro allesti-mento: proprio de La Damnation de Faust di Berlioz. Inserita nella programmazione del Festival Saïto Kinen di Tokyo, la messinscena dell’opera berlioziana viene accolta con plauso dalla critica che, da un lato, apprezza l’audacia delle scelte drammaturgiche, in pieno“stile Lepage”; e dall’altro, sottolinea un ascolto puntuale della par-titura musicale e una lettura attenta di quei versi liberamente ispirati al primo Faust di Goethe.Nel rispetto di un processo creativo che Lepage vive come workin progress, occorre precisare che già un anno dopo l’allestimento diTokyo egli realizza un primo rimaneggiamento de La Damnation.
E nel 2008 ne opera un secondo, per il Metropolitan Opera di New York. Perciò quell’insieme frammentato, giocato su disequilibri chequasi sfiorano il crollo e allo stesso tempo sorreggono, informando,la leggenda drammatica di Berlioz, diventa – soprattutto in questa versione newyorkese – un attributo ideale al lavoro del quebecche-se. Oltre a una forma dell’espressione a lui consona, Lepage intra- vede nella possibilità offertagli l’occasione di mettere in piedi un vero e proprio laboratorio. Sostanzialmente perché la realizzazionescenica de La Damnation di Berlioz, che egli concepisce per il MET, eche sarà di seguito esaminata, figura come una sorta di prova gene-rale per l’allestimento della Tetralogia di Wagner che il quebecchese prevedeva di realizzare nel 2011, sempre per il MET.
Ciò che s’indicava con “stile Lepage” comprende l’utilizzo di undispositivo scenico che assume l’aspetto imponente e tutto giocato sulla verticalità di una struttura metallica, composta da sei colonne articolate su quattro livelli, che rappresenta lo spazio agito dai can-tanti (dai ballerini, dagli acrobati). Questa struttura, «à la fois cadreunique et multitude de cases» , impressionante «mur d’écrans», è chiusa sullo sfondo da un doppio ordine di schermi. Essendo translucidi, questi permettono a Lepage di proiettarvi delle immaginiche, per fornire un esempio, riguardano le tante ambientazioni pensate da Berlioz e che, da sempre, erano ritenute difficilmente realizzabili a teatro.
La bidimensionalità della struttura, grazie al doppio strato dischermi, non solo è utile a illustrare visivamente le informazionidi natura drammaturgica fornite da Berlioz, ma è anche funzionalealla poetica stessa della messinscena di Lepage: fare «image à par-tir d’un mot, d’une phrase».
Entrando nel merito dell’opera, l’aria D’amour l’ardente flamme viene resa da Lepage attraverso un primo piano del soprano che proiettato sul muro di schermi lentamente prende fuoco sino a consumarsi letteralmente. Ciò per mezzo di sensori che, posti sui cantanti, sui ballerini, sulla struttura metallica, funzionano con un sistema d’infrarossi e intercettano ogni movimento, così come il più piccolo contorno melodico-ritmico, dinamico, della voce e della musica, e lo trasmettono in diretta a un computer che ne mostra gli effetti. Cosicché l’immagine (proiettata)del soprano si accende in coincidenza dei grandi salti ascendenti edei rapidi crescendo sino a spegnersi, sul finale dell’aria, in un completo abbandono guidato dagli archi. (…continua)
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