Robert Lepage apre il 23 settembre RomaEuropa Festival. Una scelta straordinariamente felice quella di inaugurare un Festival così prestigioso, che propone i migliori spettacoli internazionali e nazionali, con quello che è considerato a giusta ragione l’artista che ha raggiunto ormai da almeno un decennio, la vetta dell’Olimpo dei grandissimi registi (e interpreti) del teatro.
Scrollatosi di dosso la definizione di “enfant prodige della scena mondiale” “l’erede di Bob Wilson” che gli fu etichettata al suo apparire da Franco Quadri e da Renate Klett, Robert Lepage ha bruciato le tappe e ora la sua società Ex machina realizza spettacoli di portata mondiale. Basti pensare che la Tetralogia di Wagner capolavoro di ingegneria scenotecnica firmata da Lepage e Robert Fillion (il suo storico stage designer) è stata prodotta dal Metropolitan di New York e 887 ha inaugurato le Pan Am Games quest’estate.
Ho visto 887 a febbraio nell’avant-prémiere a Nantes, spettacolo con Lepage solo in scena come attore che non esito a definire un vero prodigio teatrale di naturalezza e sofisticazione (ne ho scritto una dettagliata recensione su Teatro e critica); mi sono commossa in quel teatro pieno all’inverosimile, ho riso, mi sono emozionata come non mi capitava da anni. Lepage da solo con una scenografia mobile e tecnologica a forma di edificio in miniatura, raccontava, aiutato dalle immagini, le memorie della sua famiglia e contemporaneamente, le memorie del Québec.
Ma cosa possono interessare a un pubblico europeo, le vicende drammatiche e lontane della “Rivoluzione Tranquilla” negli anni Settanta in Québec? E qua sta la grandezza di Lepage, nel riuscire a trascinarci, con una leggerezza e insieme profondità straordinarie, nelle piccole e apparentemente insignificanti vicende di persone a noi distanti per cultura, lingua, continenti, a tal punto da farle nostre.
Questo accade nella saga cinese de La trilogie des dragons, in quella giapponese di Les sept branches de la riviére Ota e nelle vicende algerine di Jeux de cartes #coeurs ). La sua originale drammaturgia gioca su più livelli narrativi: in un’architettura stratificata si intrecciano storie di esplorazioni simboliche, di perdite e di riconciliazioni; vicende lontane nel tempo e nello spazio si incastrano come scatole cinesi offrendo storie speculari, percorsi obliqui di memoria, investigazioni introspettive che relazionano la Storia al quotidiano.
Tutte le storie che Lepage racconta sono storie che per quanto intime e personali, ci riguardano e ci toccano nel profondo (da La face cachée de la lune a Elsinore a Les aguilles et l’opium); in 887 la memoria è tutto quello che rimane, confuso e a brandelli, del nostro passato ma è anche ciò che fa capire noi a noi stessi; e così l’attore si mette a nudo, rinuncia alla maschera ma anche al ruolo di rapsodo, perché il coinvolgimento emotivo è totale, c’è una sorta di fusione partecipativa tra chi recita e chi ascolta.
Il teatro qua dà lingua a ciò che non ha lingua, voce e suono al sotterraneo groviglio di pensieri e flussi di emozioni che l’attore non può e non vuole controllare interamente. La drammaturgia di 887 è viva e dinamica, poetica e profonda, intima e universale, così come è tragica e comica insieme.
La neo oralità di Lepage, se così possiamo definirla, fa affidamento a immagine, suono, parola in una dimensione multimediale che offre una possibilità di storia aperta a più sfaccettature visionarie e immaginative: non conosce per dirla con Ong “una trama lineare che tende al climax” ma organizza la propria narrazione secondo una struttura libera e frammentata per episodi raccordati tra loro tramite flashback, flussi di associazioni visive e altre tecniche narrative. Questo spettacolo è evidentemente, ampiamente influenzato dalla cultura elettronica e l’osservazione che questa cultura riprenda elementi dell’oralità venne già formulata, a suo tempo, da McLuhan in Galassia Gutemberg.
Se non vogliamo configurare questa prova di Lepage come un ritorno all’oralità tout court, è chiaro che comunque la scrittura perde il suo carattere strutturante, diremo di “brainframe” dominante. La neo-oralità elettronica a cui sembra appartenere questo spettacolo di Lepage è inevitabilmente un ibrido di oralità, scrittura e iconicità elettronica ma che denuncia al tempo stesso, anche uno scetticismo di fondo sui possibili usi distorti dei new media.
I video in scena, le fotografie, le animazioni sono un folgorante bagaglio di vissuto che svela ciò che non può essere visto a occhio nudo, sono la memoria più intima del personaggio,il suo vissuto, il suo inconscio. Tutto è contenuto nell’edificio, tutti i luoghi, tutti i tempi: sta all’attore aprirne le finestre e scoprirne le verità. Equivalenza tra vita interiore e mondo tecnologico: più che protesi, le tecnologie dell’universo di Lepage anche in 887 sono creature addomesticate, le loro forme rassicuranti e familiari.
La macchina a teatro, invece di togliere umanità all’uomo, è ciò che gli permette di riconquistare la dimensione perduta nell’uso inconsulto e maniacale delle macchine del vivere quotidiano, che isolano ma non radunano, che distruggono memoria e narcotizzano.
Ogni spettacolo “solo” di Lepage ha a che fare con la solitudine del personaggio. Solitudine che si mostra nel dolore e nella ricerca di una via di uscita attraverso l’altro o l’autoanalisi. Il motivo di partenza è sempre una rottura, di natura affettiva, psicologica o morale; il dramma sociale – ricordava Victor Turner – inizia da una perdita: il dramma, letto in senso rituale e antropologico, è infatti secondo Turner, “un’unità di processo anarmonico o disarmonico che nasce in situazioni di conflitto” . In Dal rito al teatro e in Antropologia della performance, Turner espone il tema del dramma sociale, che ha luogo quando nell’ambito della vita quotidiana di una comunità si crea una frattura nelle tradizionali norme del vivere che genera un’opposizione, la quale a sua volta si trasforma in conflitto. Questo, per essere risolto, necessita di una rivisitazione critica dei particolari aspetti dell’assetto socio-culturale fino ad allora legittimato. Una rottura inaugura, quindi, il “social drama”, la crisi apre il momento della “fase drammaturgica”.
Tutti gli spettacoli “solo” di Lepage iniziano da una mancanza, uno squilibrio, (l’hamartia greca), da un lutto (in Vinci Philippe è spinto all’idea del viaggio dalla morte per suicidio dell’amico Marc; in La face cachée de la lune i due protagonisti si incontrano in occasione della morte della loro madre; in Les aiguilles et l’opium il protagonista vive l’angoscia dell’abbandono da parte del suo amore), da un delitto (Polygraphe), da una crisi matrimoniale (Andersen’s project); in alcuni casi tale dramma sarebbe rivelatore di episodi autobiografici estremi e dolorosi. La face cachée de la lune è stato ideato all’indomani della morte della stessa madre del regista associata, scenicamente, all’immagine della luna, simbolo del femminile in tutte le tradizioni. Elseneur è stato ispirato, prima ancora che dall’Amleto di Shakespeare, dalla morte del padre.
Come non riconoscere in questo spettacolo 887, l’espressione di una crisi e contemporaneamente, un appello sincero di Lepage a ricostruire un ethos che non si basi più su grandi e illusorie narrazioni, ma su vite, esperienze, utopie e sogni concreti?
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