Peter Brook e Chloe Obolenski: la scenografia irradiante
Nata in Grecia nel 1942, scenografa e costumista la Obolenski iniziò come assistente di Lila De Nobili considerata l’ultima grande rappresentante della tela dipinta a teatro: sarà con lei per l’Aida di Zeffirelli alla Scala nel 1962 e in seguito firmerà il Fidelio, opera che apre proprio la stagione scaligera nel 2014-2015); la sua collaborazione con Peter Brook fu di lunga durata e cominciò dal periodo successivo al ritorno dal viaggio di studio e di ricerca in Africa e all’insediamento a Parigi del Centro Internazionale di Ricerca Teatrale (CIRT) al Bouffes du Nord.
È il 1980 e firma The Cherry Orchard, Carmen, The Mahabharata (versione teatrale e cinematografica), Pelléas et Mélisande, The Tempest, The tragedy of Hamlet.
Lo studioso rumeno George Banu spiega l’idea di architettura-scenografia di Brook, affermando come, successivamente all’ingresso al nuovo teatro di Parigi, trovato in stato di abbandono e in rovina, si attui definitivamente quel principio, memore del teatro elisabettiano e tanto ricercato dal regista, di avvicinamento col pubblico (“l’estetica della sfera”):
Brook non ama la polivalenza dei teatri recenti, perché troppo integrata con la tecnica: e nemmeno la scenografia, nel senso tradizionale del temrine. Preferisce lavorare con il luogo teatrale nella sua doppio funzione di scena e edificio. Così sfugge alla pesantezza dell’attrezzatura propria delle sale polivalenti, e agli artifici degli scenari. Brook fa appello alle risorse del luogo (…) Mediante il cambiamento della tinta murale, Chloé Obolenski cerca di captare la colorazione di un testo per farne la dominante visiva di uno spettacolo. L’uso scenografico dell’architettura s’impone con maggiore evidenza[1].
Patrick Tourneboeuf Le Théâtre des Bouffes du Nord. Paris @CC
È il periodo in cui Chloé Obolenski inizia la collaborazione con Brook: trovato a Parigi un teatro all’italiana in stato di abbandono il regista inglese decide di tenere i segni e la memoria dell’antico spazio e del suo vissuto (il boccascena e i palchetti), eliminando il palcoscenico e ogni idea di décor. Il muro a vista senza fondale, ridipinto di intonaco color rosso, a ogni spettacolo si accende e riscalda l’ambiente: aparentemente spoglia, la scena è in realtà, ricchissima. In questo vuoto apparente che celebra l’incontro perfetto tra attore e spettatore oltre lo spazio-tempo dell’ordinario, Brook e la Obolenski introducono pochi elementi scenici fondamentali: tappeti, cuscini, stoffe che raccontano sottovoce, antiche civiltà e i loro colori, resi vivi dalle luci di Jean Kalman introducono una “sensualità comune”, come ricorda Banu: “Le stoffe dalle tinte cupe che Chloé Obolenski cerca con ostinazione sembrano oggi l’equivalente scenografico delle parole irradianti tanto ricercate da Brook e Carrère sul piano del linguaggio”[2].
Dietro l’irradiazione delle parole un metodo di sintesi, di musicalità e di chiarezza, di intensità e armonia, di “rimozione del superfluo per intensificare ciò che rimane” che anche lo spazio scenico adotta: la scenografia si alimenta, come spiega Brook nel volume La porta aperta, del “disegno base” del regista e delle “esplorazioni di un intero gruppo di individui fantasiosi e creativi” e per questo non può essere progettato prima delle prove affinché la recitazione non si adatti a essa. Dal Mahabharata alla Tragedia d’Amleto si introduce un’ambientazione intima e solenne: elementi naturali in scena (la pozzetta d’acqua con un asse come ponticello, sabbia e pietre) insieme ai tappeti (memoria di una ritualità africana e orientale) abitati dagli attori e musicisti con naturalezza senza convenzionalità.
Se il realismo e l‘illustrazione letterale non appartengono certo alla grammatica brookiana, non occorrono castelli per Hamlet e neanche l’acqua per la Tempesta, ma servono comunque elementi per evocarne la storia perché “Nessun testo può mai parlare da solo”[3]: Brook racconta che per l’allestimento della Tempesta ad Avignone la Obolenksi aveva preparato non oggetti scenici ma delle “possibilità”: “Funi che pendevano dal soffitto, scale, assi, pezzi di legno, casse da imballaggio. Inoltre tappeti, cumuli di terra di colori diversi, vanghe e badili”. Tutto viene scartato nel corso delle improvvisazioni e prevalse ancora l’idea di spazio vuoto: rimase solo un oggetto, un modellino di barca rossa sulla testa dell’attore africano che recitava la parte di Ariel, e a questo Chloé Oblonski aggiunse per la scena piccoli cumuli di terra ricca di pigmenti caldi di color rosso di Siena e canne di bambù. Il racconto avvincente di Brook della ricerca della soluzione che delimitasse lo spazio di recitazione ad Avignone evidenzia come Brook ritornò alla soluzione del tappeto, utilizzata per le prove; la Oblonski usò il tappeto persiano usato per La conferenza degli uccelli, ma solo per delimitare un perimetro sulla terra con dei pali di bambù. Una volta levato il tappeto, rimase un rettangolo che fu riempito di sabbia rosa: quello fu il terreno di gioco degli attori, in sostanza “un posto in cui il teatro non fingesse di essere nient’altro che il teatro”.
[1] G. Banu, Peter Brook, Da Timone d’Atene alla Tempesta o Il regista e il cerchio, Firenze, Casa Usher 1994 (1° ed.: 1991), pag. 32.
[2] Ivi, pag. 80.
[3] P. Brook, Non ci sono segreti, in La porta aperta, Torino, Einaudi 2005 (1° ed. 1993), pagg. 70-85. Tutte le citazioni sono tratte da questo capitolo.