Riceviamo e volentieri pubblichiamo la riflessione del regista teatrale e interprete Domenico Castaldo
Torino 22-Aprile-2020
Riporto alcune mie riflessioni sul senso di smarrimento e solitudine, in ambito professionale, accresciuti dalla condizione di (de)privazione, vissuto durante la clausura causata dall’emergenza.
Vedo innanzitutto che il senso di angoscia, per chi si occupa di teatro, si presenta in due direzioni diversamente impattanti sulla psiche: l’assenza di prospettive economiche e l’impossibilità di praticare il proprio lavoro.
Per degli attor* praticare il proprio mestiere è aggiornamento e relazione, è realizzazione di sé, tolta la quale, come ossigeno per i polmoni, ci si sente soffocare. Di questa forza (e fragilità) molto se ne approfitta chi gestisce il denaro pubblico. Tanti di noi sono disposti a lavorare anche in assenza di prospettive economiche o di diritti al lavoro pur di non perdere il grande privilegio di questa pratica.
È davvero un privilegio? E quali responsabilità implica?
Cerco risposte attraverso le domande che ha posto un mio collega:
1-Qual è il nostro ruolo?
2-Come, in verità, si realizza?
3-Come si pone in relazionane agli spettatori?
1-L’attore e l’attrice di teatro rivestono un ruolo unico e (indispensabile) al mantenimento del sentimento di umanità nell’attuale contesto sociale. Essi si allenano a vedere possibilità dove ci sono limiti, a vedere la
realtà sotto punti di vista inaspettati a giocare con i ruoli, a invertire i termini della logica comune. Andare a teatro, dunque, può ancora rivestire il senso di questo ribaltamento di realtà.
Anche nel caso di un teatro di rappresentazione classica, in cui vediamo la messa in scena verosimile di una situazione verosimile (per quanto estrema), noi spettatori assistiamo a delle persone -gli attori- che si
travestono per giocare a non essere loro stessi, che si impegnano con tanta energia nel tentativo di farci credere di essere altri, altro da sé. Per degli attori professionisti questo sforzo coincide con il loro, per mestiere.
Assistere a questa lecita, lucida follia è sufficiente a giustificare il teatro e a dare respiro al nostro bisogno di irrealtà. Naturalmente è una potenzialità basica… gli attori possono molto di più quando si incamminano in
un sentiero di ricerca ed iniziano a sperimentare l’arte della trasformazione di se stessi e della realtà.
2-Da dove si parte per trasformare la realtà? Da noi stessi.
Gli attori sono abituati a stare chiusi in una stanza a provare magari per ore, magari soffrendo e insistendo con sforzi sovrumani dove chiunque andrebbe via con una scrollata di spalle. Provare può essere inteso nei
due sensi: provare sensazioni e tentare di renderle evidenti.
In questo sforzo può essere insito l’inizio della muta, della metamorfosi: come essere altro da quella descrizione che viene data di me? Chi altri sono? Come posso esprimerlo, cosa devo cambiare in me, fuori di
me? E in seguito, come posso trasmettere le sensazioni, cosa è indispensabile alla mia azione, alla messa in scena? Alla mia professionalità? Come sviluppare l’intuito? Come condurre la mia attenzione, e quella di chi ci sta guardando? Come dare vita a delle aride parole, geroglifici stampati su un foglio di carta?
Per dare risposta a queste domande si potrebbero passare interi anni di studio chiusi in una stanza e forse non uscirne mai…o sporadicamente!
3- Quando uscirò chi incontrerò? Me stesso.
L’attore di teatro più si sforza di essere diverso dagli altri esseri umani e peggio lavora. L’attore indaga proprio sull’umanità, per incarnarla, per farsi attraversare da essa, per prestargli il proprio corpo.
Per questa ragione lo si tiene allenato, vivo, flessibile, perché funzioni perfettamente, come un impianto elettrico che trasporta energia da impiegare a piacimento. Quando trasforma le energie del corpo, il teatro
torna a prendere il ruolo rituale di incontro tra me stesso e un altro me stesso, un’altra forma di me stesso, che si dispone interiormente a determinare un possibile cambiamento di ruolo.
Quando ci si applica in questo gioco appare un me che agisce, fa, crea, ed uno che guarda, assiste, contiene, tollera, accoglie. E tutto accade nello sguardo di un me più grande di noi stessi, che contempla.
La ritualità
Cosa siamo oltre al nostro corpo fisico? Esistono dei rituali laici che sappiano mettere l’essere umano in comunicazione con la parte incorporea del nostro essere?
Il teatro nasce dalla trasformazione di antichi rituali di iniziazione e di celebrazione per lo spirito. Inscritte nella sua origine ci sono divinità potentissime che le religioni monoteistiche hanno inglobato o cancellato. La
musica, la rappresentazione, la trasformazione delle energie psicofisiche sono il suo oggetto di studio e pratica. Vedo in questo periodo di raccoglimento una occasione speciale per restituire al teatro questo
importante ruolo: una via laica per lo spirito, una pratica diffusa di domande sull’anima, su quanto fa di noi stessi esseri alternativi agli apparecchi telematici, piuttosto che dipendenti da essi.
Domenico Castaldo, attore, regista, drammaturgo, cantante: in sintesi esperto in Embodied Musicality (Musicalità incarnata), una pratica che unisce il teatro alla musica attraverso la coscienza dell’organicità, del tempo/ritmo e dell’armonia tra corpo e mente. Diplomato del 1993 alla Scuola del Teatro Stabile di Torino con Luca Ronconi, nel 1995/96 si forma e lavora presso il Workcenter di Jerzy Grotowski e Thomas Richards. Nel 1997 fonda il Laboratorio Permanente (LabPerm) di Ricerca sull’Arte dell’Attore di cui è leader e in quanto tale formatore degli attori membri, regista e attore degli spettacoli prodotti al suo interno.