Articolo di Vincenzo Sansone con intervista a Claire Bardainne
ROMA – Il 24 e 25 ottobre 2014, “La Pelanda” (ex mattatoio Testaccio in Roma), in occasione del Roma Europa Festival 2014, ha accolto Hakanaï, l’ultima creazione di Adrien Mondot e Claire Bardainne.
La compagnia Adrien M/Claire B nasce nel 2004, operando nel campo delle arti performative coniugate alle tecnologie digitali. Come ci rivela la stessa Claire, l’interesse di legare due linguaggi apparentemente così distanti nasce dal desiderio di giocare in modo intuitivo e semplice con le immagini virtuali, così come per un giocoliere può essere semplice giocare con delle palline.
L’utilizzo delle tecnologie digitali in una perfomance scenica non è da sottovalutare, né da dare per scontato. Le tecnologie, infatti, sono di per sé affascinanti e quando nella nostra realtà fisica troviamo degli elementi virtuali, fatti di luce, ma che sembrano tangibili, rimaniamo ancora più estasiati. È facile al giorno d’oggi stupire con la tecnologia, ma è difficile utilizzarla come una metafora, come un linguaggio per scrivere una performance.
Come affermano Andrea Balzola e Paolo Rosa in L’arte fuori di sé. Un manifesto per l’età post-tecnologica, l’uso delle tecnologie in una performance non deve soltanto coinvolgere lo spettatore, ma deve consentirgli di sperimentare nuove esperienze percettive e nuovi modi di relazionarsi con gli altri spettatori e con l’oltre, condurlo verso un nuovo mondo simbolico.
Adrien Mondot e Claire Bardainne lavorano seguendo questo obiettivo. Sfruttando il video mapping, una tecnologia che negli ultimissimi anni sta avendo fortuna, soprattutto in ambito commerciale per opera di grandi brand, danno vita a delle creazioni, in cui lo stupore è l’ultima componente che colpisce lo spettatore: nei loro lavori, le tecnologie e le arti sceniche parlano dell’uomo, di quell’uomo che sta seduto tranquillamente sulla sua sedia, ma costantemente chiamato in causa per pensare alla sua condizione.
È ciò che si propone di realizzare la dance performance Hakanaï. Gli spettatori della Pelanda si trovano riuniti in uno spazio coinvolgente, che accoglie una struttura cubica, costruita prevalentemente di tulle, un tessuto impalpabile ed evanescente, tanto quanto le infinte lettere di luce che vi sono proiettate sopra e sono invitati a disporsi attorno ai quattro lati del cubo. La prima sensazione dello spettatore è lo stupore, causato sia dai fasci di proiezione che dall’essere seduti in tutto lo spazio disponibile. Infatti, nonostante siano ormai passati anni da quando la fantomatica “quarta parete” è stata abbattuta, l’immaginario dello spettatore è legato a una frontalità d’osservazione; la vicinanza e l’inclusione lo lasciano ancora perplesso. Tale perplessità però lascia subito spazio alla meraviglia, perché la danzatrice, Akiko Kajihara, immerge quegli sguardi in una nuova dimensione: il mondo dei sogni.
La nuova realtà che si dischiude agli occhi degli spettatori, non vuole essere soltanto osservata, ma invita soprattutto a guardarsi, per ritrovare se stessi, il proprio io interiore, la propria fragilità, proiettati sulla scena. E hakanaï in giapponese indica qualcosa di temporale, di fragile, di caduco, verso cui però non si deve provare terrore.
Infatti, il viaggio verso cui conduce Hakanaï, piuttosto che generare timore, invita a una presa di coscienza della fragilità umana, ben evidenziata dalle evanescenti proiezioni digitali; una fragilità, che come ci dice Claire Bardainne, non si vuole esorcizzare, bandire, superare, piuttosto preservare, perché è questa fragilità umana che ci distingue dall’essere automi, macchine perfette e che ci fornisce la capacità di emozionarci. La tecnologia quindi, più che rappresentare la superiorità della macchina sull’uomo, è metafora dell’uomo stesso, è fragile ed effimera, pronta a trasformarsi ad ogni minimo sussulto così come l’animo umano.
La condizione dell’uomo è messa a nudo dentro il cubo di tulle, un involucro protettivo, un grembo materno dove poter dischiudere la propria interiorità, senza la paura di confrontarsi con se stessi, dove potersi addormentare dolcemente, staccarsi dalle contingenze quotidiane e iniziare a sognare. La danzatrice è il sostituto dello spettatore, è l’uomo che si concede il privilegio di sorprendersi, azionando con un leggero tocco di dita la macchina dei sogni. In un attimo ci si trova catapultati in diversi ambienti visivi e sonori, generati dal connubio di immagini reali e astratte (lettere, reti, gocce di pioggia, tratti, linee) con la tessitura sonora (un mix di ukulele, chitarra elettrica, suoni reali). In questo mondo onirico tutti gli stati d’animo dell’uomo si dispiegano: paura, gioia, euforia, angoscia, serenità.
Le movenze raffinate ed eleganti di Akiko Kajihara aiutano ad affrontare questo viaggio, perché la danza, linguaggio universale, non solo mette a nudo la fisicità, ma soprattutto l’interiorità, che si concretizza nelle video proiezioni. Il percorso di Hakanaï è al tempo stesso una lotta e una compenetrazione tra il corpo (la danzatrice) e l’anima (le proiezioni), un dialogo perfetto fatto di azioni e reazioni, in cui i movimenti fisici trasformano le proiezioni, un incontro-scontro tra una volontà della danzatrice e una volontà delle proiezioni.
Il viaggio però non giunge a una conclusione, non perché vi sia qualcosa di sbagliato, ma perché non può esistere una conclusione. I sogni e le fragilità dell’uomo vivono costantemente in uno stato d’agitazione dentro il suo animo. Dopo la lotta, l’esplorazione e la messa a nudo della propria interiorità non si può che rimanere agganciati alla propria fragilità, una condizione non da denigrare ma da coltivare per continuare a stupirsi giorno dopo giorno, accompagnati dal dolce suono dell’ukulele che riporta il viaggiatore a una condizione di serenità e dal sogno alla realtà.
In questa realtà riconquistata, lo spettatore rimane attonito ed incredulo, perché nel mondo dei sogni ha messo a nudo se stesso, ha percepito quel mondo evanescente più vero di quello fisico. Non gli resta quindi che entrare in quel magico mondo fatto di tulle e fasci di luce.
Alla fine della performance, infatti, molti spettatori, curiosi e increduli, entrano dentro al cubo. Vogliono sperimentare in prima persona quale trucco, quale magia si nasconda dentro quella scatola. Non riescono a spiegarsi come quelle proiezioni digitali si modifichino a ogni movimento della danzatrice. Si tratta di materiale registrato? Assolutamente no. Quell’apparato reagisce anche agli impulsi degli spettatori che vi sono entrati dentro.
L’uso di computer, di sei proiettori, due utilizzati come fonte di luce all’interno della struttura e quattro per le videoproiezioni, della Kinect-cam, per il motion tracking della danzatrice, del software eMotion, realizzato dalla stessa compagnia, sono i segreti di questo incantevole trucco di magia, realizzato in real time, quindi senza l’utilizzo di video pre-registrati. Il cuore virtuale della performance è proprio il software eMotion, che permette sia di generare tutte le immagini e di proiettarle in tempo reale su uno spazio fisico, realizzando la sintesi tra mondo virtuale e reale, che di legarsi alla tecnologia Kinect, per far reagire il sistema di proiezioni ai movimenti della danzatrice. Il software quindi trasforma i calcoli matematici e i movimenti in scena in pura poesia, allontanando l’informatica dal suo uso comune e generando letteralmente emotion.
Intervista a Claire Bardainne
Com’è nato il vostro interesse di combinare le arti performative e le tecnologie digitale?
Difficile dirlo, una delle risposte è legata al fatto che Adrien sia un informatico, uno specialista in questo settore, ma anche un giocoliere. In un momento di riflessione ha voluto sviluppare un software che desse la possibilità di giocare con le immagini, nello stesso modo intuitivo con cui si può giocare con delle palline. Di sicuro questa riflessione è stata cruciale perché da lì è nato il desiderio e la sua realizzazione di far penetrare il vivo nella macchina, di trovare un misto tra i due. Penso sia proprio questa la prima pietra, poi piano piano per noi è diventa un’esigenza. Per esempio, non ci piace lavorare con materiale registrato, nessun video nelle nostre creazioni è registrato, tutto è fatto sul momento. Abbiamo sempre voglia di trovare il modo per far sì che la tecnologia sia organica, che sia un organismo vivo e che collabori con un essere umano, che è sempre presente. Quindi tendiamo a fare una sorta di digitale artigianale, è in questa forma di artigianato che lo spettacolo diventa vivo.
Come lavorate con il performer durante la fase di creazione di queste performance, dal momento che le tecnologie non possono essere inserite alla fine, come si fa con vari elementi in uno spettacolo tradizionale?
Creiamo tutto insieme sulla base di improvvisazioni. Abbiamo una materia prima, ad esempio la struttura cubica per Hakanaï, e cerchiamo insieme di trovare il modo per far incontrare la danzatrice con le tecnologie e con gli altri elementi. Lo spettacolo si costruisce così, lentamente, partendo da improvvisazioni sulla scena. Non c’è un’idea prima, per cui prepariamo tutto e poi arriva la danzatrice. No. Tutto, la musica, la danza e le immagini si costruiscono insieme e vanno legati.
Avete trovato delle difficoltà durante le fasi di realizzazione di una performance come per esempio il fatto che la tecnologia non rispondesse a ciò che volevate o pensavate?
Si certo, in quel caso cambiamo idea. Ovviamente ci sono delle difficoltà per tutto. Ma cerchiamo sempre di organizzare le forze in presenza, come nella Land Art per esempio. Noi cerchiamo di andare di fronte o contro l’evidenza, contro l’aspetto naturale delle cose e quindi alla fine se ci capitano cose difficile e complicate ci buttiamo.
In relazione alla performance Hakanaï, la parola hakanaï significa temporaneo e fragile. Cos’è per te la fragilità?
In Hakanaï vi sono diversi tipi di fragilità. Una prima forma di fragilità è legata all’ambito prettamente scenografico e tecnologico. Di fronte all’apparato scenografico cos’è la fragilità? La scenografia classica è fatta di materia, la nostra è fatta di luce, cambia alla velocità della luce, non è stabile e questa è già una prima forma di fragilità.
In Hakanaï e in generale nelle vostre creazioni, trattate anche di una fragilità in relazione alla condizione umana?
Come ho detto ci sono tanti modi per affrontare e comprendere questa fragilità. C’è l’effimero, tutto ciò che è vivo, che non si può strappare, che ti scappa sempre. I nostri percorsi, le nostre scenografie sono sempre così poi dopo ovviamente, simbolicamente si parla pure della condizione umana, della natura, delle stagioni e di tutto questo mondo giapponese, per esempio l’Haiku, che tratta del divenire delle cose del mondo, del trascorrere del tempo.
Pensi che la condizione di fragilità dell’uomo possa essere superata o soltanto mostrata attraverso le tecnologie?
È una bella domanda. Alla fine delle nostre performance il pubblico, in relazione alle tecnologie impiegate, ci chiede sempre, ma è interattivo o no? Ci sono sensori che fanno un lavoro o no? C’è un fascino per la macchina perfetta, quella che fa tutto da sola, che però è una cosa morta. A noi invece interessa immettere un po’ di fragilità, perché dà un senso molto più vero, molto più vivo, molto più umano. Dobbiamo trovare sempre un modo di conservare un po’ di fragilità nella tecnologia, solo così dà emozione, altrimenti ti lascia fuori, completamente fuori, non puoi entrarci. Piuttosto che superare o mostrare questa fragilità, agiamo per preservarla, perché è una condizione propria dell’uomo e quindi le tecnologie più che essere macchine perfette ci aiutano per questo scopo.
Grazie mille per aver risposto alle mie questioni.
Prego! Grazie a te invece, grazie per le belle domande.
Claire Bardainne e Adrien Mondot al Festival VISUALIA, Pola.
Fotografia di Anna Monteverdi
Hakanaï
composto e diretto da Adrien Mondot e Claire Bardainne
danza Akiko Kajihara
interpretazione digitale (alternata) Adrien Mondot, Claire Bardainne
interpretazione suono Christophe Sartori, Loïs Drouglazet
strumenti digitali Loïs Drouglazet, Christophe Sartori
supervisore esterno Charlotte Farcet
direttore tecnico Alexis Bergeron
amministratore Marek Vuiton
booking Charlotte Auché
prodotto da Adrien M / Claire B
co-prodotto, finanziato e sostenuto da Les Subsistances, Lyon / Centre Pompidou-Metz La Ferme du Buisson, Scène nationale de Marne-la-Vallée, Noisiel / Hexagone Scène Nationale Arts Sciences – Meylan / Les Champs Libres, Rennes / Centre des Arts, Enghien / Maison de la Culture de Nevers / City of Lille / Ministry of Culture and Communication / DICREAM
La Compagnia Adrien M / Claire B è accreditata da DRAC Rhône-Alpes, Rhône-Alpes Region e sostenuta dalla città di Lione.
Visto il 25 ottobre 2014 presso “La Pelanda” (ex mattatoio Testaccio) a Roma, in occasione del Roma Europa Festival 2014