(Scritto da Anna Monteverdi)
Giacomo Verde ha inaugurato a SPAM! lo spazio teatrale della compagnia Aldes a Capannori, uno spettacolo davvero toccante, personale e prezioso, “Piccolo diario dei malanni”.
E’ il racconto di una malattia che un giorno ti arriva inaspettatamente proprio mentre stai scrivendo un diario, “un piccolo diario dei malanni”, quelli degli amici di una vita, quelli di tua madre e quelli della società. E poi a una certa data, aggiungi anche il tuo, un tumore maledettamente invisibile, non prevedibile e non evitabile.
Lo spettacolo è fatto da questo diario con disegni colorati e piccole frasi annotate su un’agenda, a cominciare dal 2012, anno della morte della madre, che lo ha colto mentre era in treno, diretto verso una delle mille lontane destinazioni dove questo mondo ti sbatte per sopravvivere. E’ il lato oscuro del lavoro autonomo e indipendente che ti costringe in una condizione di autosfruttamento, è la tagliola della tanto applaudita “gig economy”.
La nuova povertà è quella del lavoro intellettuale e artistico, sottopagato, soggetto a volubilità del sistema, a cambi di direzione, a sovvenzioni che oggi ci sono, poi non ci sono più; professori, formatori, artisti, menti eccellenti che avrebbero potuto dare a questo mondo una veste più decente, sono stati sottoposti per decenni al regime 41bis dei Co.co.co.
Senza prospettive, senza promesse sono diventati come gli indiani delle riserve, costretti a vivere ai margini della società. Rifiutati, sfruttati, sottopagati, demansionati, sviliti. Pochi possono permettersi il lusso di rinunciare persino a questo lavoro sempre più precario. Si accetta, si attenda che finisca, si ricomincia la ricerca.
Né più né meno come tanti di noi, Giacomo, uno dei principali artefici del movimento dell’artivismo digitale, annoverato nelle enciclopedie come uno dei pionieri della videoarte in Italia, si è trovato più in treno che in terra, verso lontanissime sedi a istruire generazioni di studenti, spossato dalle ore di viaggio e pagato dalle Istituzioni in tempi geologici. E nell’attesa del saldo, ha provato a vivere, fare arte, fare teatro. La salute in queste condizioni di precariato consolidato, diventa un dettaglio di cui preoccuparsi eventualmente nei week end liberi, sempre che non ci siano registri da compilare. E’ un sistema che richiede di essere sempre presenti, disponibili, coinvolti ma senza mai essere assunti e talvolta, pagati. Provare per credere.
Coraggiosamente Giacomo racconta, inquadrando il suo piccolo diario con la telecamera, a mo’ di teleracconto, la sua vicenda di incontro con il “mostro”, le vicessitudini mediche, le strategie, le cure, l’operazione, le attese. E in mezzo, descrizioni di lavori che più che scegliere ti trovi ad accettare, buttato nel frullatore della Tv commerciale, ma anche momenti divertenti come il teatro condiviso con l’amico di sempre Renzo Boldrini, e il mondo infinito di relazioni generate dalla sua inconfondibile “tecnoarte povera” per il quale è giustamente famoso in tutto il mondo. Non passano le decine di meravigliose e molto scomode “oper’azioni” artistiche di Giacomo già consegnate alla memoria, ma l’ironia verso un attuale sistema ed economia dell’arte che cerca di stoccare sul mercato oggetti acclamati dai social o dall’élite dei critici, al di là di ogni oggettiva considerazione di vero valore.
Non diversa è la posizione del’artista Hito Styerl:
L’arte scomoda finirà giù dalla finestra: ovvero tutto ciò che non è piatto o non è enorme, che risulta vagamente complesso o provocatorio. Le prospettive intellettuali, l’allargamento dei canoni, le narrazioni storiche non tradizionali saranno spazzate via. Il sostegno dell’opinione pubblica barattato con le statistiche di Instagram. L’arte quotata in borsa sul listino titoli degli stronzi. Fiere sempre più numerose, yacht sempre più lunghi per teste di cazzo sempre più brutali, ritratti ad olio di bionde procaci. Buona fortuna con tutta questa roba: sarete i miei nemici mortali”. (H. Steyerl, Se non avete pane mangiate l’ l’arte. L’arte contemporanea e i fascismi derivati, in Duty free art)
In scena Giacomo ha deciso di rendersi visibile, con tutti i segni della malattia, inequivocabili: coraggiosamente, e molto ironicamente usando come unica lente di ingrandimento la videocamera, legge i dettagli di questi disegni e le storie che raccontano. Storie dietro cui si cela un’inquietudine comune e un disagio personale di fronte a una malattia che non dà anticipazioni e su cui nessuno può spoilerare.
E come è sempre stato nella sua indole, non ha negoziato con la malattia ma drasticamente l’ha colta di sorpresa attaccandola, lasciandola senza cibo, iniziando una dieta che è diventato il primo atto di rinascita, un gesto di ribellione dopo l’urlo assordante di chi è stato incastrato, prima che dal tumore, dalle logiche assurde di questa società. Che non ti concede il lusso di trovare il tempo per te, per il tuo benessere psico-fisico, per la famiglia.
All’inizio dello spettacolo Giacomo racconta di quando ha scelto di tagliare la mela per traverso; i cinque punti di una stella che il cuore di una mela mostra se non la mangi intorno al torsolo, sembrano segnare una nuova direzione, una nuova prospettiva, un nuovo modo di vivere. E la mela ha un sapore diverso. Il taglio della mela e la distribuzione al pubblico corrispondono a un desiderio di unire le forze. Ognuno nella malattia trova la sua cura, a volte funziona a volte no, ma la cura della società dovremo essere noi a trovarla.
Un po’ terapeutico un po’ autoriflessivo, questo spettacolo parla di un’urgenza, quella di chi, colpito da un male dal quale sta curandosi (e da cui siamo sicuri, guarirà) non vuole isolarsi, non sceglie la via della solitudine. Comprendiamo che non è autofinzione quando al racconto segue una danza, piccolissima, intimista, liberatoria, con una musica orientale che induce alla trance; una danza che quasi sembra voler aggirare il male con la dolcezza, con l’armonia. E’ un rituale rigenerativo che si compie all’interno del “sacro recinto” dell’assemblea-teatro e il tutto avviene con una semplice danza perché “Nulla è più naturale del cambiamento” (Julian Beck).
Il passo non più agile, si fa scudo della propria debolezza, il corpo diventa tutt’uno con lo spazio e recupera le proprie forze attraverso un respiro collettivo che elimina ogni separazione. La bellezza e la forza comunicativa di questo lungo momento di danza, inaspettato ed estatico, unisce il pubblico in modo profondo e autentico.
Giacomo Verde si occupa dell’utilizzo creativo di tecnologia “povera” per realizzare opere di videoarte, tecno-performances, spettacoli teatrali, installazioni artistiche e laboratori didattici. Ha realizzato più di 300 opere che vanno dalla video-poesia al documentario, dai video matrimoniali alle sigle per la TV, dalle installazioni interattive alle performance. E’ l’inventore del “tele-racconto” – performance teatrale che coniuga narrazione, micro-teatro e macro ripresa in diretta – tecnica utilizzata anche per video-fondali-live in concerti, recital di poesia e spettacoli teatrali. E’ tra i primi italiani a realizzare opere di arte interattiva e net-art. Ha collaborato con diverse formazioni come autore, attore, performer, musicista, video scenografo e regista. Riflettere sperimentando ludicamente sulle mutazioni tecno-antropo-logiche in atto e creare connessioni tra i diversi generi artistici è la sua costante. Attualmente è docente di Regia all’Accademia Albertina di Torino, del Laboratorio di Arti Digitali alla Facoltà di Lettere e Filosofia di Roma Tre e del corso di Spettacolo Multimediale alla Alma Artis di Pisa.
Nel 2007 ha pubblicato “ARTIVISMO TECNOLOGICO. Scritti e interviste su arte, politica, teatro e tecnologia” Prefazione di Antonio Caronia. Edizioni BFS, Pisa. Nel 2018 è stata pubblicata la monografia “GIACOMO VERDE – videoartivista” a cura di Silvana Vassallo. Edizioni ETS, Pisa – 2018