Non me ne vogliano gli altri artisti ma l’installazione di Ether’ò è quello che più mi è rimasta impressa di tutto il Festival di Pomezia. Ho sperimentato un incantato stupore a guardarla, che ho condiviso con bambini, giovani e anziani tutti raccolti intorno alla fontana circolare di Piazza Indipendenza diventata per l’occasione, come dice la scheda “pozzo metafisico” ma come dico io, anche un po’ “golfo mistico”.
Immagini che salivano a galla come ectoplasmi, volti, oggetti, ombre che camminavano sull’acqua, davvero impressionate e magico.
L’acqua diventa schermo dove quasi ci specchiamo, in un rituale collettivo, in stato sonnambolico, dove le immagini proiettate in questo strano liquido bianco lattiginoso, appaiono e scompaiono, si distorcono, assumono una forma a noi estranea e diventano enigma magmatico.
Sembra di guardare un film surrealista, un fotogramma tratto da Cocteau, da Maya Deren.
In effetti, qua lo stupore che la tecnologia dovrebbe regalarci come emozione, tra le tante altre cose, ci connette con il nostro intimo, con gli archetipi che abitano il nostro mondo interiore, e con l’eterno bambino che vuole giocare con le macchie, con le nuvole, con le pozzanghere; che vuole sorprendersi, sognare ad occhi aperti e anche lasciarsi ingannare da quel mondo inanimato di oggetti incomprensibili. Una percezione falsata da quell’acqua che sembra quel pozzo dove da piccoli rispecchiandoci, affogati da mille fantasie, abbiamo creato storie assurde.
In epoca di immagine altamente definita, di perfezione algida foto-cine-videografica, lo spaesamento dovuto all’incertezza delle forme, dei contorni, della luce di questa davvero impressionante installazione, ci riporta a uno straneamento inconsueto che ci connette con l’immaginazione più profonda che alberga in noi.
Mi vengono in mente le parole di Stan Brakhage da Metaphors on visions:
“Fate entrare le cosiddette allucinazioni nel dominio della percezione..accettate le visioni di sogno, sogni notturni e a occhi aperti, come se fossero avvenimenti reali, facendo anche in modo che le astrazioni, in così dinamico movimento quando si premono le palpebre, siano veramente percepite. Rendetevi conto che non siete influenzati solo da fenomeni visuali sui quali siete focalizzati e cercate di sondare le profondità di tutto ciò che condiziona la vista”.
Effettivamente Brakhage, il grande genio del cinema sperimentale americano, che immaginava un rifiuto totale di regole di ordine visuale precostituite, avrebbe apprezzato questo lavoro.
Lo studio dell’opera è stata presentata al Villaggio Globale in dicembre 2016, ed è stata ideata da Diego Labonia in collaborazione con Simone Palma. Entrambi appartengono al festival di Light Art di Roma “RGB Light Experience”.
Diego Labonia, in arte Dielab, cresce nell’era analogica tra transistor, cavi e musicassette, nutrendo un istinto digitale dal VIC20 in poi. La commistione di queste due tecniche, analogico e digitale, si connota di una forte spinta verso il topic della luce nelle sue forme installative. Dopo aver fondato LUCI OMBRE inizia a realizzare progetti di illuminazione urbana tra cui Radiolaser. L’esperienza nel settore continua con la direzione artistica del primo festival di light art a Roma, RGB Light Experience – Roma Glocal Brightness, in occasione del quale realizza l’installazione luminosa Specchio Riflesso.
Simone Palma concentra la sua ricerca nella realizzazione di scenografie digitali per il teatro e nell’esplorare il dialogo tra uomo e macchina nel contesto di una performance. Tra le videoproiezioni teatrali ricordiamo quelle per The Coast Of Utopia, Valse de Meduse, Citizen X e Phantasmagorica di TehoTeardo/MP5. Dal 2015 collabora con RGB Light Experience – Rome Glocal Brightness per il quale realizza il videomapping Stream of Life. Parallelamente all’attività artistica, si occupa di servizi di visualizzazione e animazione tridimensionale per diversi studi di architettura romani e di produzioni video indipendenti.