da Theatri dhe Nacionalizmi-Theatre and Nationalism, a cura di Jeton Neziraj e James Thompson, Prishtina 2011, Qendra Multimedia (testo raccolto e tradotto da Anna Maria Monteverdi e pubblicato su “Teatro e Storia” (Gennaio-marzo 2014)
Resistenza culturale nei teatri a Pristina (Kosovo): il Teatro Dodona
Le significative spaccature politiche degli anni Novanta e la repressione del regime di Milosevic hanno creato un clima sfavorevole per il teatro in Kosovo. La maggior parte dei teatri chiuse o si affiliò all’organizzazione di Milosevic. Il teatro Nazionale del Kosovo ebbe lo stesso destino. La maggior parte degli attori albanesi e registi furono espulsi. Per quasi dieci anni ci furono solo pochissime rappresentazioni in lingua albanese. Ovviamente tutti gli spettacoli prodotti dovevano passare dal filtro della censura imposta dalla nuova possente amministrazione serba (…).
La storia culturale del Kosovo nel periodo 1992-1998 ha il fulcro nel Teatro Dodona, un piccolo teatro per ragazzi e per bambini, fondato agli inizi degli anni Novanta e costruito in un’area periferica di Pristina. In quegli anni, fino al dopoguerra, rimase praticamente l’unico luogo in Kosovo a sviluppare attività culturali differenti in Albania. Questo teatrino di 162 posti a sedere sul suo piccolo palcoscenico programmò diverse attività giornaliere (fino a cinque) con tutto esaurito.
Dodona ha prodotto per lo più commedie e spesso testi di diversi autori stranieri. In un’insolita interpretazione diAspettando Godot (1995) di Beckett, apparve in scena un bidone metallico. Il Godot con la regia di Fadil Hysaj fu accolto come l’attesa di una libertà che non arrivava mai. Il bidone, così come altri elementi della rappresentazione, furono ispirati dall’oppressione e dalla violenza che il regime di Milosevic stava facendo subire agli albanesi. Lo stesso regista aveva messo in scena anche Le sedie di Ionesco, in un allestimento che si poteva leggere come una metafora del vuoto spirituale e dell’isolamento che aveva pervaso il Kosovo negli ultimi anni. Una delle commedie di maggior successo di quel tempo, Profesor, jam talent se jo mahi (Professore, sono un talento non uno scherzo) del regista e attore Faruk Begolli, fu rappresentato circa 360 volte. Di solito la sala del teatro si riempiva completamente. Spesso il pubblico finiva per buttare giù la porta per entrare, o si arrampicava strisciando sul tetto del teatro. Nell’atmosfera generale di violenza che dominava l’esterno, quel teatro era una specie di piccola oasi, uno spazio dove la gente poteva respirare liberamente e sentire il senso della dignità umana. Dodona diventò la “mela proibita”: il pubblico affrontava la paura della polizia serba e veniva a teatro per vedere gli spettacoli. Gli attori di solito dormivano dentro il teatro, perché uscire di notte e viaggiare era pericoloso. Una sera, dopo una replica, la polizia serba ordinò agli attori di bruciare la bandiera albanese che avevano tra gli oggetti di scena. Il balletto Odisea Shqiptare di Beckett (Odissea Albanese) del celebre coreografo Abi Nokshiqi fu proibito il giorno della prima perché “conteneva elementi nazionali albanesi”. Il Teatro Dodona continuò la sua attività fino a cinque giorni prima dei bombardamenti della Nato sulle truppe e sulla polizia serba.
Durante quei giorni alcuni criminali sconosciuti uccisero la giovane attrice del Teatro Dodona, Adriana Abdullahu, e ferirono altri membri della compagnia. Adriana era una delle attrici di maggior talento della sua generazione. Durante la guerra la maggior parte degli attori che lavorava al Teatro Dodona furono espulsi con forza da Pristina. Faruk Begolli fu uno dei pochi che riuscì a scampare rifugiandosi in casa della sorella, da qualche parte nella città di Pristina.
Il dopoguerra
Durante la guerra in Kosovo l’edificio che oggi ospita il Teatro Nazionale del Kosovo (ex Teatro del Popolo) fu danneggiato dalle bombe cadute lì vicino. Anche la maggior parte degli altri teatri subì danni gravi. Finita la guerra, passò un lungo periodo prima che questi teatri potessero ricominciare a lavorare. Uno dei primi testi allestiti al Teatro Nazionale dopo la guerra in Kosovo fu l’Amleto di Shakespeare con la regia dell’inglese David Gothard: venne letto come uno spettacolo che sollevava il dilemma tra vendetta e perdono.
A un certo punto uno degli attori, a mezza scena, narrava la sua storia: durante la guerra era stato catturato dai soldati serbi; dopo averlo percosso gli chiesero di recitare qualcosa da Shakespeare. L’attore scelse il monologo “Essere o non essere” dell’Amleto. Il dilemma del principe di Danimarca corrispondeva certamente al suo: morire o restare in vita? Quell’Amleto fu lo spettacolo di maggior successo del dopoguerra in Kosovo: restò in cartellone per due anni, un destino toccato a ben pochi allestimenti.
Dopo la fine del conflitto, molti degli spettacoli kosovari che parlavano di guerra furono realizzati nello spirito del cosiddetto “teatro documentario”, in cui erano evocati con grande pathos momenti della guerra. Altri autori preferirono evitare tematiche di guerra o presentare la guerra in modo indiretto. Il regista Bekim Lumi portò in scena La lezione di Ionesco con il protagonista assomigliava a Hitler, con la stella di David cucita sulla sedia dove avveniva l’omicidio. L’intera rappresentazione era una metafora della tendenza umana a usare la violenza sugli altri.
I teatri e le compagnie indipendenti sono proprio quello che è mancato in questi anni nel teatro del Kosovo. Tranne l’Oda Teatro e Teatrit Te Babes, infatti, non ci sono altri teatri indipendenti in Kosovo. Molte delle compagnie e dei gruppi teatrali che si sono insediate in Kosovo dopo la guerra, a parte il Quendra Multimedia, non sono riusciti a sopravvivere.
Quendra Multimedia, fondato nel 2002, ha sviluppato decine di progetti teatrali. Nel 2007 presentò Darka e fundit(L’ultima cena), uno dei più ambiziosi progetti del dopoguerra. Un team congiunto di artisti svizzero-kosovaro lavorò per due mesi, producendo due “azioni teatrali” che furono rappresentate in spazi teatrali non convenzionali. Dopo un intenso lavoro preparatorio, lo spettacolo fu allestito un piano di un palazzo abbandonato dove aveva avuto sede il giornale in lingua albanese “Rilindja”, uno dei più famosi edifici in Pristina. Fu rappresentato tre volte di seguito di fronte a un grande pubblico: presentava con grande coraggio la situazione del dopoguerra in Kosovo e il dilemma tra vendetta o perdono.
Il riferimento era chiaro: lo spettacolo era per albanesi e serbi, ma il messaggio e le questioni che sollevava erano senza tempo e universali. Lo spazio scenico era pieno di organi di animali, cuori, teste, polmoni… In una scena, un’attrice spiegava come i serbi l’avevano violentata mentre tagliava un cuore di un animale con un coltello. Lo spettacolo aveva due livelli narrativi. Il primo consisteva dei racconti degli attori sulla loro esperienza della guerra in Kosovo. Alcune di queste storie erano vere, altre state create per lo spettacolo. Il secondo livello comprendeva dialoghi tra vittime e carnefici: era un piano immaginario, in cui la performance cercava di rispondere filosoficamente e politicamente a alcune domande su vendetta o perdono, in particolare nel contesto del Kosovo. Per esempio, è possibile il perdono? Come ottenerlo? E’ necessario che i carnefici chiedano perdono, perché il perdono venga loro concesso? Un assassino è più forte o più debole dopo che ha commesso un omicidio? Queste e altre domande diventarono tangibili e sembravano esser comprese nello stesso momento in cui le altre storie di guerra venivano rappresentate dagli attori in scena.
Il teatro in un nuovo stato
Come nuovo stato, il Kosovo ha regolari attività teatrali regolate per legge. La legge spiega generalmente il ruolo e la funzione del Teatro Nazionale del Kosovo (Teatri Kombetar i Kosoves, TKK): la più importante istituzione teatrale del paese deve produrre spettacoli, portare il pubblico a teatro, far conoscere la migliore drammaturgia nazionale e mondiale. Nonostante questo, la fisionomia e il ruolo del teatro sono al centro di un processo di professionalizzazione ancora in atto. Si sta chiarendo lentamente la prospettiva di un Teatro Nazionale rispetto al pubblico, alla drammaturgia nazionale e allo stato. In particolare, la relazione con la drammaturgia nazionale e con lo stato sono diventati i due temi controversi nel dibattito sul teatro di questi anni.
Il nuovo stato finanzia il TKK e le sue altre attività perché rappresenta l’istituzione nazionale che identifica lo stato del Kosovo. Ma uno stato deve necessariamente avere un Teatro Nazionale?
A parte questa nazional-mania, lo stato non mostra un vero interesse per il teatro e per il suo sviluppo. Attraverso le sue strutture, cerca soprattutto di tenere il teatro nelle sue mani, mantenendone il controllo. Questo non avviene attraverso un controllo di tipo politico, o con la censura dei contenuti delle produzioni. Per prima cosa il controllo è esercitato attraverso restrizioni dei fondi o limitando l’accesso ad altre risorse, come l’uso della sala o di altri spazi interni. Le principali strutturale statali (il governo e la presidenza del Kosovo) continuano infatti a usare il teatro per differenti iniziative, soprattutto omaggi a eroi della storia passata o recente.
La gerarchia del potere (non quella ufficiale) sul TKK va dal Ministro della cultura, gioventù e sport (e risale fino al Primo ministro), all’ufficio del Presidente fino al Segretario, al direttore del dipartimento della Cultura, dell’Ufficio spettacoli, e infine all’ufficio organizzativo del Teatro. Questa catena illegale di comando è condizionala soprattutto dal fatto che TKK è finanziato con denaro pubblico. Ogni sforzo per tagliare queste reti di comando porta a conseguenze che vanno da pressioni che possono condurre a rimozioni dall’incarico o alla cancellazioni di fondi, passando per ricatti e pressioni burocratiche.
Subito dopo la dichiarazione d’indipendenza, una mattina, all’ingresso del teatro, alcuni funzionari pubblici issarono un cartello con scritte cubitali “Repubblica del Kosovo”, e poi “Ministero della Cultura, Gioventù e Sport” (in caratteri più piccoli) e più in basso ”Teatro Nazionale” (in caratteri decisamente più piccoli). Il cartello fu rimosso a seguito della pressione dei media e non è più stato rimesso, ma questo episodio, e le proporzioni delle lettere che indicavano le diverse istituzioni,i mostravano chiaramente la gerarchia di forze e anche la relativa autonomia del teatro in relazione alle altre strutture dello Stato.
Il rifiuto da parte dell’organizzazione del Teatro TKK nel 2009 di soddisfare una formale richiesta da parte dell’ufficio del Primo Ministro, che richiedeva di usare la sala per attività memoriali, causò uno scandalo mediatico e politico che portò quasi alle dimissioni del Direttore Generale. In effetti le dimissioni furono date molti mesi l’incidente, visto che il direttore non era più in grado di fronteggiare la pressione politica e la crescente burocrazia del Ministero della cultura.
Rispetto alla programmazione, negli ultimi anni il teatro ha sviluppato un repertorio “politicamente corretto”. In altre parole, il teatro non solo non fa niente senza lo stato ma contribuisce direttamente all’idea di “costruzione dello stato” attraverso la promozione dei “valori nazionali”. In sostanza, il teatro non ha alcun potere di creare o provocare opinione. A causa della continua crisi, provocata dalla scarsa affluenza del pubblico, il suo ruolo nella società è marginale. L’adozione di questo ruolo “opportunistico” è stata proprio una dei fattori chiave che ha portato il pubblico a rifiutarsi di andare a vedere quelle rappresentazioni.
Le circostanze create dopo la dichiarazione di indipendenza hanno sollevato un altro dibattito: quali sono i confini di una drammaturgia nazionale? L’ampia nozione di drammaturgia albanese (che include l’opus integrale della drammaturgia scritta da autori albanesi) ha cominciato a essere ridotta alla sola “drammaturgia kosovara”. La tendenza viene sostenuta principalmente dai drammaturghi interessati alla “riduzione quantitativa del mercato”. Più piccolo è il mercato, e più crescono le loro possibilità.
In queste nuove circostanze politiche, il teatro deve porsi alcune domande cruciali:
Che cosa è un teatro nazionale?
Quali testi della drammaturgia nazionale dovrebbero essere portati su un palcoscenico di un teatro nazionale?
Quali sono i “grandi temi nazionali” adatti a un teatro nazionale?
I testi nazionali fanno di un teatro nazionale un teatro ancora più nazionale?
Un teatro nazionale si denazionalizza quando porta in scena Shakespeare, Molière o altri autori contemporanei?
E così via con altri dilemmi…
Il repertorio del TKK negli ultimi due anni ha avuto un rapporto di 4 a 2 tra drammaturgia straniera e drammaturgia nazionale: questa proporzione continua a essere il tema più discusso. I critici notano che “questo è un teatro nazionale” e quindi nel suo repertorio dovrebbero esserci testi nazionali in misura più massiccia. Seguendo questo ragionamento, gli autori locali sono diventati più consapevoli dei problemi della nostra società e, considerando che il teatro è “uno specchio dove la società proietta i suoi problemi”, l’idea di dare maggior spazio alla drammaturgia nazionale ha un senso. E’ un’idea giusta che ha basi fondate. Nonostante questo, sorgono alcuni problemi se prendiamo in esame la drammaturgia prodotta da autori albanesi e dal modo in cui questi ultimi affrontano la questione: in molti casi manca il senso critico, o il coraggio di affrontare diversi temi e tabù. Il passato viene affrontato in maniera parziale, evidenziando solo alcuni momenti ed eventi, all’interno di una cornice molto selettiva. Vengono così taciute debolezze, errori e colpe all’interno della società albanese, che magari vengano letti come la conseguenza di imposizioni esterne, come l’“influenza dei nostri nemici”.
Perché abbiamo creato questi schemi e perché questi schemi continuano a influenzare i drammaturghi? La ragione principale è certamente legata alle circostanze politiche e sociali. E’ ragionevole che il principale obiettivo di una nazione oppressa, politicamente non consolidata, fosse la libertà. E i lavori drammaturgici che non contribuivano a questo ideale, ma avevano a che fare con altri problemi (ritenuti marginali), erano di solito considerati pericolosi o responsabili del rallentamento del processo di avvicinamento a questo ideale. Nel mostrare i problemi interni del paese, ci fu la preoccupazione che si potessero dare messaggi negativi al mondo, suggerendo così che noi fossimo una nazione che non meritava la libertà. Dunque sulle nostre scene una madre albanese non poteva mai essere una puttana; un combattente per la causa nazionale non poteva mai diventare un traditore e i serbi erano quasi sempre soldati ubriachi che bestemmiavano e uccidevano a sangue freddo.
Anche i registi teatrali albanesi non sono ancora in grado di affrontare i testi albanesi. Dal momento che i loro interessi nel teatro sono spesso più vicini all’interesse del teatro in quanto istituzione, nella maggior parte dei casi preferiscono mettere in scena un testo riconosciuto dalla drammaturgia internazionale piuttosto che un testo nazionale. Comunque la minoranza, quelli che lavorano con testi nazionali, in genere portano in scena “codici teatrali” che si suppone rammentino al pubblico qualcosa di “storico”, “culturale”, “tradizionale” o “nazionale”. In queste circostanze, alla luce della discussa qualità della drammaturgia nazionale, è più facile e meno rischioso optare per testi stranieri, perché il successo del prodotto finale – lo spettacolo – è più importane dell’assenza della drammaturgia nazionale dal programma di un teatro.
In questa crisi di identità che il teatro del Kosovo vive in questo periodo, la domanda più importante sembra molto impegnativa: cosa è di fatto un valore nazionale e cosa dovrebbe affermare o contestare questi valori?
Se oggi lo stato (a causa del suo interesse nazionale) promuove la coesistenza tra serbi e albanesi, il teatro deve accettare questo valore come un dato di fatto, oppure opporsi, esaminando la realtà, dal momento che, per esempio, questo valore viene spesso negato e per nulla accettato? Questo valore (che lo stato promuove), per quanto importante, viene ampiamente contestato, ma opporsi a esso potrebbe significare sostenere il nazionalismo e mettere in pericolo il futuro del nuovo stato. Il compromesso – cioè evitare di affrontare temi come questi – può essere però considerato opportunismo e questo non porta alcun beneficio al teatro.
Ma quali sono oggi i temi nazionali importanti? Secondo un gruppo di pseudo-artisti, questi temi sono il frutto della storia e sono legati all’idea della formazione della nazione e dello stato e così via. Secondo questa logica, il Teatro Nazionale dev’essere un caposaldo di questi temi e la dicitura di “Teatro Nazionale” significa proprio questo.
L’approccio a questi argomenti in molti casi ha escluso ogni tipo di confronto con i “fatti storici” o con il possibile “lato oscuro” degli eventi storici, che potrebbero essere immediatamente etichettati come “antinazionali”. Questo approccio ha fatto in modo che il teatro diventasse il tramite di una storia “senza sangue”, proprio come i libri di storia. (…) Il teatro del Kosovo dovrebbe essere un teatro libero!