Pubblicato sul primo numero della rivista Prospero European Review novembre 2010
Lechy Elbernon: […] Il teatro. Lei non sa cosa sia?
Marthe: No.
Lechy Elbernon: C’è un palco e una sala. Poiché tutto è al chiuso, le persone vengono là di sera e stanno seduti su file di sedie gli uni dietro agli altri, guardando.
Marthe: Cosa? Che cosa guardano, visto che tutto è chiuso?
Lechy Elbernon: Guardano il sipario, e quello che c’è dietro quando è sollevato. E succede qualche cosa sul palco, come se fosse realtà.
Marthe: Ma non lo è! È come un sogno che si fa quando si dorme.
Lechy Elbernon: È così che vengono al teatro la notte.
Paul Claudel [1].
Presenterò qui solo il cantiere di una riflessione in corso, formulando alcune ipotesi che dovranno essere progressivamente verificate ed approfondite. Quello di cui mi propongo di parlare, è il difficile emergere del ” teatro virtuale “, cioè di quello che è descritto spesso come un ritardo delle arti della scena ad integrare questo campo di sperimentazione tecnica ed artistica che si chiama realtà virtuale. Ritardo tanto più stupefacente considerando che l’arrivo delle nuove generazioni di artisti, che hanno familiarità sin dall’infanzia o dall’adolescenza con l’informatica e con la rete, non ha prodotto un investimento importante in questo campo della creazione teatrale. Vorrei analizzare quali sono le ragioni di questo ritardo, se ritardo c’è, prendendo in considerazione certi malintesi che secondo me si manifestano in questa attesa, così come le direzioni prese da alcuni artisti teatrali e delle compagnie che, malgrado tutto, operano in questo campo da più di quindici anni.
Ma, prima di tutto, non sarà inutile capirsi su alcune definizioni preliminari. Quella di realtà virtuale, innanzitutto.
Ciò che si chiama realtà virtuale non è, in effetti altro che la ricerca dei mezzi grazie ai quali gli oggetti digitali, creati o trattati da un computer, possono smettere di apparirci unicamente come delle immagini eventualmente corredate di effetti sonori, cioè per i soli canali sensoriali della vista e dell’udito. In questo momento si punta essenzialmente al nostro senso del tatto, anche se si possono immaginare altri sviluppi. Due sono dunque le direzioni esplorate: l’effetto di rilievo e quello di profondità, attraverso la simulazione di una terza dimensione dello spazio; e l’effetto di resistenza o di risposta, con la simulazione di un peso, di una materia, di un’interazione. La realtà virtuale comincia quando ciò che è solamente il risultato di calcoli, e che tutto al più si presenta abitualmente sotto forma di un’immagine sonorizzata su un schermo, ci dà l’illusione sia di un oggetto materiale, sia di un essere vivente vero (un ” avatar”), o di un ambiente concreto all’interno del quale possiamo spostarci. Questi effetti sono ottenuti generalmente, per ciò che riguarda la vista, attraverso dei visori, schermi in miniatura a cristalli liquidi o da televisori posti davanti agli occhi, e montati su occhiali o caschi detti “head mounted display”; e, per il tatto, con guanti speciali (“data gloves”) che danno alla mano l’illusione di impadronirsi di un oggetto e di manipolarlo.
La definizione di arte digitale:
Questa definizione, che si adopera a proposito di ogni creazione artistica generata rielaborata o dai computer, si riferisce oggi a innumerevoli collezioni di opere d’arte visiva, musicale, cinematografica, senza dimenticare le molteplici combinazioni di queste arti. Nel campo del teatro, mi sembra che le produzioni che si sono messe in evidenza in questo campo si possano raggruppare attorno a due grandi direzioni:
-o il teatro diventa digitale con il trattamento informatico della rappresentazione, dando l’illusione della presenza del corpo, di oggetti e di spazi creati da computer,
–o il teatro diventa digitale attraverso il trattamento informatico dell’interpretazione, facendo dell’attore un’interfaccia ( per esempio grazie al processo di cattura del movimento, agendo sulla rielaborazione di certe sorgenti di dati, banche di immagini o di suono).
Molti contributi scientifici, articoli o tesi dedicate alle relazioni tra le arti della scena e le nuove tecnologie, evocano una terza direzione: quella di creazioni, fatte da uomini di teatro o da coreografi, unicamente accessibili su supporti elettronici (CD-ROM, DVD, siti Internet, ecc.). Mi sembra impossibile seguirli su questo punto; se si vuole considerare che un film teatrale[2] (per esempio Il Mahabharata di Peter Brook, secondo la sua messa in scena) o di danza (come Mammame de Raul Ruiz, con la coreografia di Jean-Claude Gallotta), non è, per l’esattezza, né un spettacolo di teatro né di danza, ma piuttosto la sua riscrittura in un altro dispositivo artistico, questo non può essere il caso di opere che esistono solamente per gli utenti disseminati, ciascuno restante davanti allo schermo del suo computer o del suo smartphone. Tali produzioni – quelle di Laurie Anderson[3] o di Wooster Group[4] per esempio – poiché sono destinate a un uso individuale nella sfera privata, inventano dei dispositivi estetici che hanno evidentemente una loro piena legittimità, ma che sono collocabili in un campo diverso da quello delle arti sceniche.
Si tratta dunque, solamente di adattamenti di opere teatrali o coreografiche, che propongono un altro tipo di esperienza rispetto a quella dello spettatore di una rappresentazione pubblica – la prima differenza è quella dell’azione effettiva che devono compiere gli utenti di queste creazioni elettroniche per scoprirne tutte le potenzialità, questione sulla quale ritornerò più tardi.
Una realtà che si cancella.
Fatte queste premesse, stabilite queste distinzioni, vorrei ora precisare l’idea, rievocata all’inizio di questo testo, del difficile emergere di un’arte scenica che mette in campo effetti di realtà virtuale. Sono molte le considerazioni infatti, che rischiano di creare una frattura tra il teatro e la sua epoca, se non si decide di integrare diversamente le nuove tecnologie; non semplicemente per esempio, integrandole con le proiezioni di immagini, ormai così frequenti nelle messe in scena odierne.
Franck Bauchard, per esempio, scriveva una dozzina di anni fa :
“Nel momento in cui, entrando in un’éra cibernetica, gli artisti si sono confrontati con nuovi contesti culturali e tecnologici, con nuove pratiche degli spettatori e con nuove attrezzature, il teatro si afferma come un spazio sacralizzato che resiste alle evoluzioni portate dall’éra digitale. La relazione che si stabilisce in altre arti tra gli sviluppi tecnologici ed il cambiamento estetico è oggi, priva di significato per il teatro? Se il teatro è un prisma attraverso quale lo spettatore può accedere alla realtà, come può dar conto delle nuove percezioni dello spazio e del tempo che corredano il virtualizzazione del mondo? Diventando un luogo dove si mantengono intatte le forme tradizionali della rappresentazione, il teatro ci porge degli specchi che riflettono una realtà che si cancella.” [5]
La natura assoluta di queste affermazioni non è dissimile da quelle che possono essere trovate nei manifesti modernisti all’inizio del XX secolo. Mi permetto qui di formulare un dubbio: qualsiasi cambiamento tecnologico importante non ha sempre la vocazione di tradursi letteralmente sul palco. E quando lo fa, forse bisognerebbe considerare queste procedure di integrazione come un momento, un passo nel processo di familiarizzazione di una società con questi nuovi ambienti. In questa prospettiva, la domanda di integrazione, sulle scene contemporanee, di tecniche e di immaginario propri della realtà virtuale, potrebbe essere paragonata agli esperimenti futuristi o costruttivisti di teatro-aereo, le danze delle macchine, gli attori robotici delle scene «magnetiche» o “elettromeccaniche” negli anni Venti: quella fu allora, l’espressione di un momento di crisi delle rappresentazioni, crisi determinata anche da altri fattori, specialmente estetici [6], e non l’entrata in una nuova éra della scena, che si sarebbe così finalmente adattata alla modernità urbana ed industriale.
Ma c’è un altro sintomo, ancora più rivelatore che le dichiarazioni militanti: l’aumento molto impressionante, negli ultimi anni, di creazioni classificate come esperimenti di “teatro virtuale”. Nella sua tesi di dottorato scritta nel 2005, Clarisse Bardiot osservava come questa espressione, che provoca un notevole entusiasmo, riunisce però realtà le più disparate. Basandosi sulle richieste fatte con il motore di ricerca Google, la Bardiot concludeva:
«Mentre nell’aprile 2003, le ricerche di “Teatro virtuale” e “virtuale + teatro” davano 5 050 e 483.000 risultati, nel febbraio 2005 erano rispettivamente 23 000 e 2 700 000.» In francese, le richieste di “Teatro virtuale” e “Teatro + virtuale” davano 67 e 110 risultati nell’aprile 2003 e 3.410 e 144.000 nel febbraio 2005. Nell’analizzare i risultati ottenuti nelle prime pagine, si può osservare che l’espressione comprende oggetti molto vari. Ecco alcuni esempi: panorama a 360 ° di luoghi reali, dispositivo immersivo, metodo di cattura del movimento in tempo reale per animare i personaggi in 3D, rappresentazione mentale, piéce teatrali filmate e disponibili su Internet, siti di appassionati di teatro, modalità di collaborazione a distanza (videoconferenza), rappresentazioni teatrali che utilizzano sistemi di telepresenza, performance teatrale che combinano attori virtuali con attori reali, drammi interattivi che coinvolgono personaggi dotati di comportamenti autonomi, scenografie che utilizzano realtà virtuale… “[7]
Quattro anni più tardi, nel maggio 2009, la stessa ricerca dava, per l’inglese , rispettivamente 23 100 e 101 000 000 risposte, 1.810 e 18 300 000 in francese – e, come era prevedibile, questa disparità non ha fatto che aumentare. Si noti, tuttavia, che nel febbraio 2010, scendono a 20.700, 6 380 000, 6970 e 725.000, il che ci ricorda in primo luogo la grande instabilità delle risorse disponibili su Internet e in secondo luogo la semplice evidenza che tutta la storia non è necessariamente cumulativa: lo sviluppo delle pratiche non è fatto da semplici aggiunte, ma secondo movimenti di flusso e riflusso di difficile interpretazione. La fortuna di questa espressione (teatro virtuale) appare comunque significativa, il che testimonia l’importanza delle aspettative in quest’area: ancor prima di materializzarsi in realizzazioni incontestabili, ‘Teatro virtuale’ è l’espressione del desiderio di vedere materializzarsi sul palco teatrale quei simulacri elettronici che incontriamo nella vita: nei molteplici usi del nostro computer e della rete, nelle mostre e installazioni di arti plastiche e ovviamente anche anche nel cinema. E questo desiderio, di per sé, ha un senso.
Le produzioni che, sulla base delle precedenti definizioni, possiamo avvicinare al “Teatro virtuale” sono in realtà molto meno numerose. Possono anche essere deludenti e soprattutto la complessità delle procedure attuate non sempre è facilmente percepibile. È difficile, ad esempio, per gli spettatori della messa in scena di Jean Lambert-Wild di Orgia, di Pasolini (2001), stabilire un preciso collegamento tra lo spostamento e le evoluzioni delle strane creature che galleggiano come senza peso intorno attori e i segnali involontari emessi dagli attori:
‘”Tre attori interpretano Orgia, piéce di Pasolini messa in scena a Belfort da Jean Lambert-wild. Ma non sono soli sul palco. Intorno a loro galleggiano, in alcuni momenti, degli strani esseri: gli Apharias, che presentandosi in grappoli, evocano le bolle di sapone; gli Hyssards, molto più voluminosi, hanno una forma decisamente fallica. Queste creature traslucide, che non sono altro che proiezioni in tre dimensioni, hanno il nome generico di Posydones e sono state ispirate da organismi viventi sul fondo degli oceani. Dei sensori, collegati alla pelle degli attori, registrano i ritmi cardiaci e respiratori, le variazioni di temperatura. Il comportamento dei Posydones, i loro movimenti, dipendono direttamente da emozioni umane. “[8]
Ma per questa integrazione effettiva di realtà virtuale all’interno di una scena teatrale, quante denominazioni fuorvianti. Soprattutto, quanti realizzazioni che non rientrano nell’ambito delle arti sceniche, ma piuttosto in quello delle arti plastiche, perché in realtà si tratta di installazioni destinate a visitatori (ad esempio, il Salone delle ombre di Luc Courchesne, 1996). E, più spesso ancora, quante messe in scena che, battezzate come ‘Teatro virtuale’, in realtà offrono un’esperienza che rientrano nell’ambito delle attività ludiche piuttosto che di quelle artistiche: chat con avatar visive su Internet [9], questionari messi online prima di una rappresentazione teatrale [10], flash mob [11], ecc.
Due regimi della relazione col pubblico
Perché, dunque, questo ritardo ad emergere in piena visibilità con realizzazioni indiscutibili, nonostante le alte aspettative? E, poiché alcune di queste creazioni esistono dalla metà degli anni Novanta, perché continuano a essere così spesso confuse, anche negli studi accademici e nelle pubblicazioni specializzate, con attività che rientrano in altri settori della vita sociale?
– l’opposizione tra dispositivo immersivo e dispositivo spettatoriale: il teatro, emancipandosi dal rito, dalla festa o dai giochi, è costruito sul distacco, condizione primaria della percezione estetica; siamo così passati da spettacoli cosiddetti «di partecipazione» a rappresentazioni teatrali davanti ad un pubblico.
– l‘opposizione tra percezione multisensoriale e dominazione del vedere e del sentire: lo sforzo degli ideatori di realtà virtuale di far toccare con mano oggetti digitali, li allontana dal modello teatrale, sia che questo sia a base a base testuale, musicale o spettacolare.
– l’opposizione tra dispositivo interattivo e riserva (che non vuol dire passività) dello spettatore, che assiste la rappresentazione di un evento senza agire direttamente su di esso.
Anche se gli specialisti di nuove tecnologie evidenziano le molte creazioni che hanno usufruito, soprattutto nella seconda metà del XX secolo, di momenti di partecipazione effettiva del pubblico o del suo coinvolgimento nell’azione scenica o coreografica [13], resta il fatto che l’esperienza diretta, continua e quasi allucinatoria di un ambiente in cui è possibile agire fisicamente, cancella la distanza necessaria alla percezione di un’opera d’arte. E, cosa più importante, questa stessa esperienza rompe il patto teatrale, per cui, al contrario del soldato di Baltimora da Stendhal, io mi freno ad intervenire nello svolgimento dell’azione drammatica:
“L’anno scorso (agosto 1822), il soldato assegnato all’interno del teatro di Baltimora, vedendo Otello che, nel quinto atto della tragedia con quel nome, aveva intenzione di uccidere Desdemona, esclamò:”Non sia mai detto che in mia presenza un dannato Negro uccide una donna bianca”.” In quel momento il soldato spara un colpo di fucile e rompe il braccio all’attore che impersonava Otello. “[14]
Non è quindi sorprendente che le arti sceniche stiano ancora lottando per integrare i processi della realtà virtuale, o che alcune delle realizzazioni in questo campo siano un po’ deludenti. Se possiamo ritenere, con Franck Bauchard, che il teatro deve effettivamente “dare conto delle nuove percezioni dello spazio e del tempo che accompagnano la virtualizzazione del mondo”, la difficile emergenza di un ‘Teatro virtuale’ probabilmente non deriva dalla volontà che avrebbe questa arte di essere definita come “uno spazio sacralizzato [resistente] agli sviluppi portati dall’era digitale” [15] ma piuttosto da questo divario primario, fondatore, tra l’attività di spettatore e l’attore o il personaggio che interpreta.
Il che mi porta a questa prima conclusione: per far si che si mantenga nel campo dell’arte teatrale, l’integrazione di realtà virtuale deve essere sul palco, non in sala. È necessario che l’immersione e l’interattività, entrambe caratteristiche fondanti dei mondi virtuali, rientrino sulla scena per diventare uno spettacolo di immersione, uno spettacolo dell’interattività tra l’attore e il suo ambiente. Ovviamente, questo non significa che i dispositivi di realtà virtuale implementando il processo di immersione e di interazione con il pubblico, non possano dar luogo ad applicazioni artistiche: lo fanno invece, da molto tempo, in particolare nel campo delle arti visive o della musica. Ma queste applicazioni sono a mio avviso di un ordine di esperienza intermediaria, vicine alla performance, e che non possono definirsi ‘Teatro virtuale’ senza provocare equivoci: è l’approccio, per esempio, che seguono un Stelarc o un Marcel.lí Antúnez Roca quando, attraverso un esoscheletro, o qualsiasi altra forma di interfaccia, permettono al pubblico di dirigere i loro movimenti del corpo.
Alcuni vincoli tecnici
Inoltre, la realtà virtuale, anche se è oggetto di approfondite ricerche da vent’anni, si scontra sempre con vincoli tecnici che rendono difficile l’integrazione nel dispositivo teatrale, se si tiene in mente che questo richiede la raccolta di un pubblico di fronte ad una rappresentazione scenica, dato un luogo e un tempo. Infatti, visivamente, la percezione estesa della realtà virtuale, cioè l’impressione completa di profondità e rilievo, può essere creata solo tramite apparecchi tecnici individuali. Gli spettatori, anche se sono tutti accessoriate con questi ‘visori’ (in particolare per Wings di Arthur Kopit regia di Ronald A. Willis e Mark Reaney, 1996), si ritrovano quindi separati l’uno dall’altro. Vedono tutti insieme lo spettacolo, come il pubblico di un cinema, ma non si vedono vederlo; percepiscono se stessi, non tanto come parte integrante di una comunità attraversata da stesse emozioni e stessi significati, esperienza fondatrice per lo spettatore, come già notato da Schiller [16]. Pertanto, una dimensione essenziale della relazione teatrale, quella della condivisione sensibile di un’esperienza in tempo reale, viene atrofizzata.
Quindi l”uso più frequente è quello di ricorrere a forme intermedie, quasi introduttive, di materializzazione della realtà virtuale. Se l’accento è posto sul lato di interattività, i dati digitali su cui agiscono gli attori (ad esempio muovendosi) danno luogo, visivamente, ad immagini proiettate su uno o più schermi: è quello che fanno Toni Dove in Spectropia (2007), Mark Reaney Dinosaurus (2001) o Marcel.lí Antúnez Roca nelle “performance mecatroniche” che realizza in Epizoo (1994). Se invece è privilegiato l’effetto di immersione, le immagini create o rielaborate dal computer sono proiettate su diversi schermi trasparenti, collocati a profondità variabili sulla scena, in modo da dare la sensazione che gli attori siano immersi in un universo fantastico, circondato da creature immateriali. Queste sono le soluzioni adottate da Jean Lambert-wild in Orgia di Pasolini (2001), o in maniera più complessa da Michel Lemieux e Victor Pilon, Denise Guibault per La tempesta di Shakespeare(2005). L’effetto risultante non è quello di un mondo compatto, omogeneo, ma di uno spazio lamellare, all’interno del quale coesistono e interagiscono i diversi livelli di realtà, diversi registri di presenze, come ci hanno abituato da molto tempo i processi di integrazione delle proiezioni di film o video sulla scena teatrale. Qualunque siano le prodezze tecniche messa in opera, che portano, in particolare ne La tempesta, all’invisibilità del supporto tecnico per le proiezioni, si tratta di dare agli spettatori non tanto la sensazione di un universo virtuale ma quanto quello di una ‘realtà aumentata’, cioè un ambiente instabile, derivante dall’ibridazione di mondo fisico e oggetti digitali.
Un secondo vincolo, più difficilmente superabile, sta nelle difficoltà che provano gli attori all’interno di questi spazi ibridi, dove non possono percepire dal palco, gli elementi virtuali che li circondano e con cui essi dovrebbero interagire (per esempio negli allestimenti di R. A. Willis e M. Reaney per Wings di Arthur Kopit e per Adding Machine di Elmer Rice, 1994; ma anche, in una certa misura, in Orgia dove gli interpreti furono costretti ad una quasi totale immobilità). Ovviamente il problema non è nell’obbligo di recitare con oggetti e partner immaginari, che è una delle basi della formazione dell’attore, ma nel fatto che l’esistenza di questi oggetti e questi partner, lungi dall’essere creati dall’immaginazione dello spettatore attraverso la recitazione dell’attore sulla scena, si materializza in forme contemporaneamente visibili al pubblico e invisibili per l’interprete. Anche se si potrebbe paragonare questa situazione a quella di un attore di cinema, costretto anche lui a trattare con elementi inesistenti al momento delle riprese [17], il paragone non è convincente: davanti alla cinepresa, si recita per la durata di pochi piani, non il tempo di una rappresentazione intera; e per diverse inquadrature tra cui sarà possibile scegliere, non davanti a un pubblico.
Nuovi spettri
L’effetto di ibridazione che ho citato in precedenza, spesso porta gli artisti a dare priorità, in produzioni dove si usano tecniche di realtà virtuale, alla rappresentazione di mondi immaginari: ricordi e sogni (in The Adding Machine e Wings), fantasie di ogni genere (per Marcel.lí Antúnez Roca), emozioni legate al desiderio (in Orgia messa in scena da Jean Lambert-wild), magia (ne La tempesta o nella messa in scena del Flauto magico di Del Unruh e Mark Reaney, 2003), splendida spettacolo destinato ad un pubblico giovane (Dinosaurus di Patrick Carriere e Mark Reaney 2001), fantasy e fantascienza (Spectropia di Toni Dove). Spazio fantasmagorico, la scena si popola di creature strane, impalpabili, venute da altri dimensioni della realtà. Non è quindi nella sua dimensione illusionista, come un territorio concorrente al mondo fisico, che la realtà virtuale trova il suo posto nelle arti dello spettacolo, ma piuttosto come agente di incertezza: scena “aumentata”, naturalmente, ma forse meglio ancora incrinato, “disgiunto” (“out of joint”, dice Amleto), come se lo spazio-tempo della rappresentazione si spaccasse all’improvviso per far sorgere nuovi spettri.
Allo stesso modo, probabilmente non è solo difficile compatibilità della rappresentazione teatrale e del ricorso a “visori” individuali che conduce al reflusso progressivo degli esperimenti che mettono in gioco, intorno gli attori, un ambiente scenografico virtuale: è anche l’attenzione di questi approcci artistici attorno alla questione dell’incarnazione teatrale, cioè modelli di figurazione e della posizione dell’essere umano. Solo il rapporto del teatro con i mondi immaginari, infatti, può essere veramente arricchito dal contributo della realtà virtuale: sia quando questa fa apparire, a fianco di attori fisicamente presenti sulla scena, creature intermedie, che sembra il caso più delle volte esplorato oggi; sia quando questi interpreti virtuali fanno retrocedere la figura umana sino ali limiti dell’estraniamento, che è proprio quello che esplorano le ‘ figure fantasmagoriche” di Denis Marleau (I tre ultimi giorni di Fernando Pessoa, Antonio Tabucchi, 1997; I ciechi di Maeterlinck, 2002) e Zaven Paré (Théâtre des Oreilles da Valère Novarina, 2001).
Se il sogno di un ‘Teatro virtuale’ tarda a materializzarsi, nel senso di esibizioni pubbliche che coinvolgono, all’incrocio delle loro definizioni più esigenti, l’arte del teatro e le tecniche di realtà virtuale, non è per colpa della mancanza di spazio per investire, ma piuttosto a causa del difficile adeguamento di due mondi quasi antitetici, e che non possono fecondarsi l’un l’altro se non rinunciando ciascuno alle proprie ambizioni singolari : la scena a definirsi principalmente grazie alla presenza fisica dell’attore; la realtà virtuale, a proporsi come un equivalente di questa presenza fisica. Paradossalmente è nel interstizio aperto dagli effetti molteplici della derealizzazione dell’azione scenica, mi sembra, che potrebbe emergere un teatro dell’epoca digitale.
Note
[1] Paul Claudel, L’Échange, Théâtre, vol. 1, Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, Paris, 1967, p. 676.
[2] Cfr. Béatrice Picon-Vallin (dir.), Le Film de théâtre, CNRS Éditions, Paris, 1995.
[3] Laurie Anderson / Hsin-Chien Huang, Puppet Motel, CD-rom Multimedia, Gallimard, 1995.
[4] Zoe Beloff / The Wooster Group, Where where there there where, CD-rom multimédia, Electronic Arts Intermix, 1998.
[5] Franck Bauchard, «Théâtre et réalité virtuelle: une introduction à la démarche de Mark Reaney», in B. Picon-Vallin (a cura di), Les Ecrans sur la scène, Lausanne, L’Age d’homme, 1998, p. 225.
[6] Cfr.: Didier Plassard, L’Acteur en effigie, Figures de l’homme artificiel dans le théâtre des avant-gardes historiques, L’Âge d’Homme, Lausanne, 1992.
[7] Clarisse Bardiot, Les Théâtres virtuels, tesi di dottorato sotto la direzione di Béatrice Picon-Vallin, Université Paris III, 2005, vol. 1, p. 7.
[8] René Solis, Libération, 9 febbraio 2001.
[9] Vedi l’attività del Desktop Theater: http://www.desktoptheater.org/
[10] Il était Xn fois, spettacolo del progetto Virthéa presentato a Brest nel 2009 dalla compagnia Derezo.
[11] Cfr.: C. Bardiot, Théâtres virtuels, p. 193.
[12] « L’art du théâtre a beaucoup en commun avec le phénomène de la réalité virtuelle (RV). Une représentation théâtrale et une expérience de RV sont toutes les deux basées sur le temps, n’existent que pendant la durée où les participants humains y sont engagés. Tous les deux se basent sur la création d’un univers fictif pour distraire, informer, éclairer » (Mark Reaney, « Théâtre et réalité virtuelle : un art en temps réel », conferenza del 24 mars 2000 a CIREN, Université de Paris 8, testo disponibile sul sito: http://www.ciren.org/ciren/conferences/240300/index.html).
[13] Cfr. per esempio Frédéric Maurin, « Devant / dedans », Les Cahiers de médiologie, n° 1 (La Querelle du spectacle), Gallimard, Paris, 1996, pp. 83-91.
[14] Stendhal, Racine et Shakespeare, Paris, Kimé, 1994, p.22.
[15] Franck Bauchard, « Théâtre et réalité virtuelle : une introduction à la démarche de Mark Reaney », in Béatrice Picon-Vallin (dir.),Les Écrans sur la scène, L’Age d’homme, Lausanne, 1998, p. 225.
[16] Cfr.: Friedrich Schiller, « La scène considérée comme une institution morale », Mélanges philosophiques, esthétiques et littéraires, Hachette, 1840, pp. 385-386.
[17] E’ nota la posizione di Lance Gharavi, assistente di Mark Reaney per Wings: cfr.: Ozana Budau, «L’Acteur dans le théâtre virtuel», http://www.groundreport.com/Arts_and_Culture/ACTING-IN-VIRTUAL-THEATRE-LActeur-dans-le-theatre-/2834465
Didier Plassard, longtemps professeur de littérature comparée et d’études théâtrales à l’université Rennes 2 - Haute Bretagne, (où il a fondé le Département Arts du spectacle), est aujourd’hui professeur en études théâtrales à l’université Paul-Valéry Montpellier 3. Il a publié L’Acteur en effigie (L’Age d’Homme, 1992, Prix Georges-Jamati), Les Mains de lumière (Institut International de la Marionnette, 1996, rééd. 2005), des traductions, et plus d’une centaine d’articles dans des périodiques (Alternatives théâtrales, Études théâtrales, L’Annuaire théâtral, Puck , Théâtre / Public, Théâtre S) ou des ouvrages collectifs. Il prépare un volume collectif sur la mise en scène allemande contemporaine pour la collection des « Voies de la création théâtrale » aux Éditions du CNRS, et l’édition bilingue du Drama for fools / Théâtre des fous d’Edward Gordon Craig. Ses recherches portent sur de nombreux aspects de l’écriture théâtrale et de la scène contemporaines, mais aussi sur le théâtre des avant-gardes, le théâtre de marionnettes, les relations entre le théâtre et les images, etc. Il est par ailleurs membre du comité des lecteurs du Théâtre national de Bretagne (Rennes), chercheur du réseau théâtral européen Prospero et rédacteur en chef de la revue en ligne Prospero European Review – Research and Theatre.