Angelica di Andrea Cosentino è uno spettacolo di un po’ di anni fa (2005) ma a cui sono particolarmente legata. Perché Andrea è un grandissimo attore e (non solo) narratore e monologhista: riesce a chiudere in una sintesi fulminea concetti giganteschi riducendoli a una manciata di immagini che ti raffiguri ma mentre ci pensi, lui sta già portandoti da un’altra parte. Il pianosequenza e la morte, la morte che non si riesce a raccontare e che narrata in TV fa pensare alle fiction di quart’ordine. Dello spettacolo ne ho tratto un film documentario che accentua l’aspetto cinematografico.
Così SImone Nebbia sullo spettacolo:
“Pier Paolo Pasolini alla cui morte è dedicato questo spettacolo, nelle sue Osservazioni sul piano sequenza in Empirismo eretico, sostiene che “la morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita” allo stesso modo di come il montaggio interviene sul materiale cinematografico; in questa maniera la comunanza dei due mezzi, ad operare sul materiale vivo e vivente, è decisiva: laddove il cut di entrambi compie un atto sempre violento di sintesi, paradossalmente si sta creando nuova vita, nuovo senso, perché se in sala di montaggio si avrà la versione sgrossata e addomestica della materia, per una migliore comprensione, ossia il film, allo stesso modo la morte netta la sequenzialità umana di ciò che all’apparire è superfluo, dà il conto e la misura, di una intera vita. Il senso della morte in Pasolini, dunque, si svolgeva lungo questa linea segmentata: ogni stacco una cesura, ogni cesura una morte. Si può morire più volte, allora, come Angelica, come tutti. Questo spettacolo è del 2005. La sua costruzione ha avuto un rapporto con la morte più intimo che in altri tempi: così vivo il ricordo dello Tsunami in Indonesia, onda anomala che da quel momento ha preso lettera maiuscola. Ho provato a rivedere i video, oggi, al ricordo stimolato da Cosentino, la ragazzina accanto alla madre e l’onda che travolge, la famiglia che realizza che “non c’è tempo di fare un video” e bisogna scappare sulle colline, dichiarando dell’immagine l’incapacità a raggiungere la vita reale, l’uomo in bilico a fare foto in mezzo a un piccolo atollo che sta per essere risucchiato, l’ultimo, che si chiama «l’uomo che ha filmato lo tsunami», ed è il ricordo sugli stessi luoghi di quel ragazzo che ha fermato la storia, perché io ne tragga un racconto. Insieme a questo un inspiegabile senso di esaltazione, di esistenza compresente, un conturbante strano sentimento di essere nell’incandescente accadere di mondo, adrenalina e decadenza, ovverosia, il senso della morte. La devastazione dell’onda, il dolore disumano e insieme umano, finiti negli interstizi dell’immagine, nel taglio di montaggio.
Simone Nebbia Teatro e Critica