Madre e Assassina” is one of the most important and famous company’s productions to date. This video is not the on-stage shooting but the digital reconstuction of the theatrical view. Unfortunately the video cannot give the right idea of the most important characteristic of this play, that is the illusionistic way of performing it. The illusion is about mixing what is real on stage (real objects and real actors) with what is projected (characters, places, scenographies).
Come ricorda ERICA MAGRIS
Dietro l’argomento del progetto si staglia il mito di Medea Nella creazione di Teatrino Clandestino, però, la storia di Medea viene traslata alla dimensione della cronaca, per trasformarsi nella vicenda di “una donna più che normale” – come cita il programma – nella provincia italiana degli anni Cinquanta. Lo scandaglio della complessità del mito non si concretizza né in un approfondimento degli elementi psicologici né in una concentrazione sul compiersi del gesto tragico dell’assassinio, ma si traduce in una “ricerca più che formale” – dal programma – sulla presenza dell’attore e sulla composizione dell’evento teatrale. Pietro Babina e Fiorenza Menni, in coerenza con i lavori precedenti sul tema, hanno messo a punto un dispositivo in cui l’attore diventa una presenza fantasmatica, lontana dallo spettatore e visibile solamente attraverso un doppio elettronico che emerge dalla totale oscurità. Pietro Babina ha affermato a questo proposito:”Ho sempre trovato più visioni nell’oscurità, nel buio, è al buio che mi si illuminano i soggetti che ho cominciato a portare con me a teatro”.
Il dispositivo è allo stesso tempo sofisticato ed artigianale, fonte per lo spettatore di indubbia fascinazione e di ambiguità percettiva. Davanti alla platea, piuttosto raccolta, uno spazio libero di un paio di metri chiuso da uno schermo semitrasparente collocato alla classica altezza del palcoscenico o dello schermo cinematografico, e che occupa totalmente il quadro scenico. Di fronte ad esso, a modi proscenio, si trova una stretta passerella unita alla sala da una scaletta. A circa tre/quattro metri di distanza dal primo schermo se ne trova un altro. Al centro in basso, invisibili agli spettatori, sono collocati due proiettori su binari, da cui vengono inviate sullo schermo posteriore delle immagini, che, grazie alla semi-trasparenza del telo, sembrano acquistare profondità e consistenza. Quasi impercettibile, ma altrettanto importante, è il raffinato sistema di diffusione del suono, particolarmente funzionale al suggestivo insieme sonoro composto dallo stesso Babina. Un particolare che ho notato a questo proposito è la presenza di una cassa collocata in verticale proprio sopra il pubblico. Dietro la duplice barriera degli schermi si trovano gli attori, che sono dunque ben distanziati e completamente invisibili agli spettatori. Il loro ruolo è di dialogare e produrre rumori in diretta in sintonia con le azioni compiute dalle loro immagini pre-registrate inviate sulle superfici di proiezione. Solo un’attrice compare davanti al pubblico nella seconda parte dello spettacolo, sulla sottile striscia di proscenio davanti allo schermo anteriore. Lo spettacolo instaura quindi un rapporto ambiguo e problematico della platea con la scena, creando una compresenza dialettica di distanza e immersione. Se da un lato infatti gli spettatori sono lontani dagli attori nascosti, e quindi distanziati dall’azione, che giunge attraverso il filtro dello schermo e dell’immagine elettronica, dall’altro, grazie alla totale oscurità e al sistema audio essi tendono ad essere inglobati percettivamente nell’universo scenico, in una strana e angosciante intimità con gli spettri del palcoscenico. Inoltre nella seconda parte, l’attrice sul proscenio menzionata precedentemente si rivolge direttamente al pubblico, mettendo in opera un ulteriore complicazione dei rapporti di distanza e prossimità.
a prima parte dello spettacolo consiste nella presentazione della storia di Maddalena Sacer, esempio di “casalinga perfetta” inserita nel corso di una vita apparentemente piana e serena, che improvvisamente un mattino uccide i suoi due bambini. Sullo schermo posteriore vengono proiettati delle brevi sequenze girate in un set cinematografico appositamente costruito dalla compagnia, in cui gli attori e gli oggetti a colori si stagliano su un fondo nero uniforme, con un effetto che ricorda vagamente le atmosfere cinematografiche diDogville (2003) di Lars Von Trier e di Wittgenstein (1993)di Derek Jarman. A queste immagini se ne accompagnano a volte in contemporanea a volte in alternanza altre proiettate sullo schermo anteriore. L’inizio dello spettacolo esplica bene le possibilità di relazione che sono instaurate tra i due livelli di proiezioni: inizia una musica ritmata e ossessiva, mentre sullo schermo anteriore iniziano a scorrere delle immagini di palazzi e strade in bianco e nero riprese da un auto in movimento dal basso verso l’alto. Dopo qualche tempo appaiono sul retro le immagini di pannelli bianchi di silhouette stilizzate e antirealistiche di edifici ( che inizialmente crediamo essere dei veri pannelli), sui quali sono scritti in calligrafia infantile “chiesa”, “municipio”, “fabbrica”, “maternità”. Ogni pannello viene come issato per poi cadere con un tonfo prodotto in diretta dagli attori e lasciare lo spazio a quello successivo. Lentamente le immagini anteriori sfumano, e quando cade l’ultimo entriamo nel reparto maternità e assistiamo al parto del secondo figlio di Maddalena. La famiglia felice, torna poi a casa su una bella macchina grigia.
Per tutto lo spettacolo il rapporto fra realtà/bianco e nero/davanti, e fiction/colori/dietro viene mantenuto, se pur con significativi scarti e slittamenti dall’uno all’altro: dietro viene proiettata la fiction con i suoi pannelli e i suoi ambienti rarefatti e pur ricostruiti minuziosamente nella fattura degli oggetti, fra i quali assume un particolare rilievo estetico e simbolico l’automobile grigia della famiglia Sacer; davanti troveranno posto le strade, le fabbriche e, in un momento molto intenso nella sua enigmaticità, il volto della “madre”, ripreso con taglio divistico in primi piani alternati a destra o a sinistra dello schermo, che sembrano suggerirne i travagli e la complessità interiore, evocando al tempo stesso un riferimento ai film hollywoodiani dell’epoca. Il modello della famiglia borghese, così presente nella cinematografia degli anni ’50, è infatti per Teatrino Clandestino un universo stilistico di riferimento e al tempo stesso l’obiettivo di una critica di tipo sociale, con un’operazione che per certi aspetti ricorda la pellicola di Todd Haynes Lontano dal paradiso(2002).
Le scene si snodano senza un’apparente progressione drammatica: i quadri domestici tratteggiano il ritratto di una famiglia senza problemi la cui routine è interrotta solamente dalla visita di un’amica d’infanzia di Maddalena, la cui vita emancipata si scontra con la visione ingenua e appagata della protagonista. Le ansie e le inquietudini di Maddalena sono abbozzate, suggerite: forse è la predizione di un’apocalisse che distruggerà le nuove generazioni lanciata con noncuranza dall’amica, forse l’intima insoddisfazione per una vita troppo perfetta, o forse un raptus di follia immotivata a portare al gesto tragico e irrimediabile. La scena dell’infanticidio è costruita in maniera molto efficace e risulta di grande impatto emozionale: durante una colazione come tante altre, la protagonista si avventa sui figli e li uccide a coltellate. L’imminenza della catastrofe è preannunciata dal racconto del bambino, che durante la notte ha sognato proprio che la madre uccideva lui e la sorella trasformandosi in un diavolo. Repentinamente la fantasia del sogno si trasforma in atto reale. Allo scattare della violenza, le immagini posteriori scompaiono, e sullo schermo anteriore viene proiettata una silhouette che si avvicina brandendo un coltello stagliata su un fondo rosso fuoco e che viene inghiottita da fiamme elettroniche, mentre un bombardamento sonoro di frequenze molto intense avvolge lo spettatore, ponendolo in uno stato fisiologico di ansia ed eccitazione. Questo insieme visivo e sonoro fortemente aggressivo è mantenuto forse troppo a lungo: superato lo shock iniziale, la tensione si allenta e il pubblico entra in uno stato di impazienza, chiedendosi quale potrà mai essere il seguito della storia e dello spettacolo…
La risposta arriva e stupisce ulteriormente. La frattura fra il “prima” e il “dopo” è netta, e forse la seconda parte non risulta pienamente risolta dal punto di vista drammaturgico e contenutistico. Sullo schermo scorrono dei titoli da trasmissione televisiva, entra sul proscenio da dietro la platea un’attrice in pantaloni di pelle e bustino di pizzo, la sala è investita di luci verde-azzurre a effetto stroboscopico. Il brusco cambiamento del tono e del registro di presenza dell’attore produce un forte spiazzamento: improvvisamente il pubblico è sbalzato all’interno di un reality-show televisivo dei giorni nostri, accusato di voyeurismo, calato in una situazione scomoda. L’attrice è la conduttrice cinica e sensazionalista della trasmissione e si rivolge direttamente agli spettatori: dopo che tanti anni sono trascorsi dall’efferato delitto, afferma la necessità di investigare sulle ragioni che hanno spinto Maddalena al gesto insensato, annunciando un’intervista esclusiva con la protagonista. Alla critica alla famiglia borghese che emerge, forse in maniera un po’ generica, nella prima parte si affianca quella della società dell’immagine. La conduttrice intervista con crudeltà lo spettro elettronico di Maddalena, che riappare sul fondo con i vestiti insanguinati. Di fronte alle domande incalzanti la donna rifiuta di spiegare la sua azione e mostra di aver rimosso l’accaduto. La conduttrice allora sfodera “il pezzo forte”, una registrazione acustica dell’omicidio. Il dramma viene rivissuto nella fusione delle urla atroci dei bambini (registrate) e di quelle della madre (in diretta). Il trauma viene rivissuto dal pubblico e dalla protagonista, che però rifiuta la soluzione psicanalitica e scompare dicendo “sono uscita dalla mia vita e non so come rientrarci”. Cala l’oscurità, la conduttrice esce ed il fantasma della Sacer si insinua nella sala, in carne e ossa ma invisibile. L’inquietudine degli spettatori è molto alta. La protagonista rivendica il diritto di non dover spiegare il perché del suo gesto ed esce. Arriva poi la conclusione dello spettacolo, molto intensa ed efficace, che manifesta in maniera esplicita l’interesse prioritario del Teatrino Clandestino verso la ricerca di un nuovo linguaggio teatrale. Il dispositivo tecnologico viene svelato agli spettatori e in questo modo ne viene evidenziata l’artigianalità tutta teatrale: vengono alzati i teli degli schermi, emergono le strutture in legno e la pedana di fondo con gli attori e gli oggetti utilizzati per produrre i rumori. Viene così alla ribalta l’elemento umano negato dal dispositivo ed il lavoro materiale e concreto del teatro. All’interrogativo sulla volontà di conoscere a tutti i costi di un gesto assassino incomprensibile e quasi “incommensurabile”, con questa scelta dello svelamento se ne sembra aggiungere un altro sulla volontà di fare teatro e sulla necessità “formale” di esplorare nuove possibilità legate alle peculiarità tecnologiche del nostro presente.