Due eventi teatrali di importanza internazionale di fine estate hanno rimesso al centro dell’attenzione la scena-immagine: il debutto all’Opera di Roma di Anatomy of a Sybil di William Kentridge (abbinato alla riproposta dello spettacolo Work in progress con le originarie scenografie di Calder) e quello rappresentato, a sei ore di fuso orario di distanza, a Québec per la regia di Robert Lepage, ovvero il remake de Les sept branches de la riviére Ota.
Se il primo era evidentemente un appuntamento mondano e di gala, il secondo pur nell’importanza doppia del debutto e dell’inaugurazione del nuovo Teatro Le Diamant di Lepage/Ex machina nel cuore della vecchia Québec, era stato promosso come un evento cittadino molto informale.
In entrambi gli spettacoli emerge una scena che, come da costante degli autori, per quanto spesso abbinati a un’idea tecnologica del palcoscenico, ha richiami espliciti più al teatro dell’origine che non a quello della videocultura contemporanea. Questi gli elementi che li contraddistinguono: le ombre (viventi e animate) e le macchine (dispositivi scenici o congegni macchinici). Lepage e Kentridge pur nella diversità delle proposte, rimettono in circolazione modalità artistiche rétro, tecniche inconsuete e obsolete, mostrando l’innovazione tecnologica come la naturale evoluzione di un sapere tecnico antico che appartiene “geneticamente” al teatro. Che lo sguardo à rebours evidenziato da questi due spettacoli possa essere interpretato come un’affermazione fortemente politica in epoca di dominio algoritmico, è molto più che un sospetto.
Calder e Kentridge
Kentridge e il suo music theatre commissionato dal Teatro dell’Opera, divideva la serata con uno dei più grandi scultori del ventesimo secolo, Alexander Calder e il suo storico Work in progress (1968) ricostruito filologicamente (immagini coordinate da Giovanni Carandente
e presentate da Filippo Crivelli su musiche elettroniche di Niccolò Castiglioni, Aldo Clementi, Bruno Maderna).
Una scena quella di Calder, arricchita dalle sue famose sculture cinetiche, oscillanti e sospese, fatte di fili metallici, e stoffe coloratissime dette mobiles e stabiles (così chiamate rispettivamente da Marcel Duchamp e Jean Arp) che diventano personaggi inanimati ma “mossi” (meccanicamente, o tramite soffi d’aria). Il teatro diventa volutamente un circo (forma di spettacolo popolare da lui ben conosciuta e amata) con gli attori come marionette, a volte ciclisti dentro un moto perpetuo, o ancora, ombre o perfino, all’occorrenza attrezzisti. Nella loro breve apparizione da sogno, forme astratte, sagome di animali ritagliati su carta e giochi di luci cangianti sono i veri protagonisti, rubando la scena letteralmente agli attori-manovratori, attori-oggetto.
Waiting for the Sybil
Nella seconda parte William Kentridge (presente in sala alla prima) firma la regia, la scenografia e l’intero concept di questo capolavoro di teatro musicale che è Waiting for the Sybil. In scena 5 danzatori 4 cantanti e vari coristi su musiche africane (in parte) registrate e composte per l’occasione da Nhalanhla Mahlangu e Kyle Shepherd, tutti di Johannesburg.
Il pubblico romano non è certamente nuovo alla visione delle sue creazioni (al Teatro dell’Opera era andata in scena la Lulu da Berg, il monumentale murale di 550 metri Triumphs and Laments è visibile sui muraglioni del Lungotevere; la mostra Vertical Thinking con l’installazione The Refusal of Time è stata presentata al Maxxi). Waiting for the Sybil è una specie di congiunzione tra quella potente installazione al Museo d’arte contemporanea di Roma in cui Kentridge aveva realizzato un ambiente a mo’ di collage dinamico con una proiezione sincronica a cinque canali, di film animati, ombre, sculture in movimento, e l’allestimento lirico di The nose da Shostakovich. Nel primo caso l’artista aveva usato l’intero armamentario del suo immaginario pre-tecnologico: megafoni di latta, vecchi orologi, macchine da scrivere, nel secondo invece aveva usato prevalentemente collage di carta, usando in particolare le pagine del giornale. Kentridge per Anatomy of a Sybil (35 minuti) ricorda la figura della Sibilla Cumana ritratta anche da Michelangelo nella Cappella Sistina, i cui responsi sul destino degli uomini erano scritti su foglie di quercia che il vento provvedeva a disperdere in modo che nessuno avrebbe trovato quello che lo riguardava. Così Dante:
Così la neve al sol si disigilla;
così al vento ne le foglie levi
si perdea la sentenza di Sibilla.
(Dante Alighieri, Paradiso XXXIII, 64-66).
La Sibilla interpretata da una cantante africana al centro della scena, funge nello spettacolo da amplificatore dei dubbi, dei disagi dell’uomo: lei ingoia nelle proprie cavità, con una gestualità inequivocabile le domande, le paure che raccontano l’angoscia di esistere; divora tutto ciò che sfugge al controllo umano, i mostri che dominano la vita, il terrore dell’imponderabile. La verità è occultata perché il potere controlla ogni terrore, sottomette ogni mostruosità, delimita i confini dell’agire libero. Noi siamo responsabili della nostra distruzione, non forze sovrannaturali; ci consegniamo spontaneamente alle macchine, agli apparati, ai sistemi politici e burocratici, fino ad arrivare ai media che confondono le parole della Sibilla, le disarticolano e le rendono incomprensibili, vuote, irrisolvibili. Si leva il disperato grido della Sibilla che è quello latente in tutti noi, ed è un’epifania necessaria: il futuro è già scritto dalle macchine ma solo per chi non ha fede nella propria forza.
Nello spettacolo i fogli con le risposte che volano via, diventano dischi rotanti proiettati, fogli di giornale con disegni al carboncino animati e scritte che contengono parole che pesano e tra le tante, quella che ci è rimasta impressa è: “Affama l’algoritmo”. In questo senso lo spettacolo è anche una specie di manifesto della sua arte che più che guardare al passato guarda all’uomo. La menzogna, l’errore, sono scanditi proprio dai fogli di giornale che scivolano via, così come le gambe delle sedie che non reggono. In un mondo dove l’uomo non sa stare in piedi perché deve condividere lo spazio con la macchina, rimane solo una difesa, l’urlo. O il silenzio di una macchina interrotta.
In scena il coro e i cantanti indossano vestiti squadrati, geometrici che ricordano Leger, Schlemmer o la Popova e rendono gli interpreti, loro stessi sculture viventi “alla Calder”; ma poiché anche Kentridge ha composto sculture aeree mobili, l’omaggio all’artista degli anni Trenta diventa quasi un modo per citare sé stesso. In un’intervista l’artista sudafricano dice che le opere di Calder gli hanno sempre ricordato “qualcosa che si muove in circolo”, e questo circolo per lui erano le domande senza risposta alla Sibilla. Rimane in scena l’immaginario che arricchisce il repertorio di Kentridge: le ombre animate di figure umane in processione, simboli di riscatto nel Sudafrica post apartheid.
L’ombra del remake: Les sept branches de la riviére Ota di LEPAGE
Robert Lepage ha definitivamente abbandonato la vecchia sede della sua compagnia multidisciplicare Ex machina, la Caserne Dalhousie, a due passi dal fiume San Lorenzo, per trasferirsi in una struttura decisamente più moderna e appena inaugurata: il Teatro Le Diamant nel cuore della vecchia Québec. Per chi ha voglia di sentire la storia del cambiamento nei decenni della struttura che oggi accoglie Le diamant, ecco il racconto che ne fa Lepage con il supporto di immagini
Il primo spettacolo con cui ha aperto le porte al pubblico è una riproposta di un lavoro del 1995, Les sept branches de la riviére Ota, all’epoca commissionato dal governo del Giappone per i 50 anni dalla bomba atomica su Hiroshima.
Le modifiche dalla originaria versione non sono molte e la tecnologia più attuale fa fatica a rallentare il passo per assomigliare a quella video in voga in quegli anni; certamente le immagini digitali sono più pulite e fluide. Vale la pena ricordare che proprio questo fu il primo spettacolo su cui si misurò il talento di Carl Fillion, lo scenografo di Ex machina (oggi passato al Cirque du soleil), anche se nel riallestimento ha fatto solo da supervisore. In gergo tecnico la scena, nella sua assoluta semplicità, è costruita da sette “pannelli a coulisse” (pannelli armati) con movimento orizzontale a scomparsa; i pannelli sono guidati su binari che trascinano una o più porte trasparenti che rappresentano una tipica casa giapponese, permettendo svariati cambi di scena. Proprio questi cambi, effettuati a mano dai personaggi, determinano il lungo viaggio narrativo che va dal 1945 al 1995. La trasparenza della casa, la presenza di specchi permettono moltiplicazioni di figure, proiezioni di ombre, effetti visivi che si uniscono (oggi come ieri), alle videoproiezioni con un gioco di sovrapposizioni molto artigianale e efficace (l’attore incastrato in mezzo ai pannelli che viene colpito dalle luci sul fondale, diventando ombra, e come tale partecipa “qui e ora” all’azione video pre-registrata).
Il pastiche narrativo del “Project Hiroshima” assembla in una logica cinematografica “paratattica” già molto apprezzata all’epoca, l’occupazione americana del Giappone, Georges Feydeau, la danza Butoh, Madame Butterfly, i comici americani degli anni Cinquanta Abbott e Costello e il campo di concentramento di Terezin, raccontando l’unione (nel dolore della distruzione e nella speranza della ricostruzione) dell’Occidente e dell’Oriente ma anche del comico e del tragico. Il fotografo americano Luke O’Connor viene incaricato subito dopo la guerra, di fotografare i danni materiali della bomba atomica su Hiroshima e si innamora di una hibakusha (una “sopravvissuta”): questa semplice trama genera un fiume di storie che si intrecciano inaspettatamente, raccontando ciascuna, come anche dalle peggiori atrocità si possa generare una vita.
Lo spettacolo va oltre il 1995 e arriva, nella nuova versione, sino a noi, con i giovani artisti che si confrontano con la memoria di una storia che non hanno mai conosciuto. La tecnologia semplificata e ridotta a videoproiezioni che si alternano all’azione recitativa, con l’uso tradizionale delle ombre, rimane ancor oggi la cifra stilistica di questo lavoro; la scenografia trattiene i corpi in forma di ombre come davvero accadde nei muri di Hiroshima a causa dell’esplosione, diventando una lastra “fotosensibile” e una scrittura di luce, metafora di un percorso di memoria, di illuminazione e di conoscenza.