Maguy Marin, francese di origine spagnola, è una danzatrice e coreografa, senza dubbio la maggior esponente della nouvelle danse francese. Dirige la Compagnie Maguy Marin che ha sede a Tolosa. Formatasi al Mudra (Bruxelles) con Maurice Béjart, Alfons Goris et Fernand Schirren, ben presto Maguy ha elaborato un percorso artistico personale che dalla danza l’ha portata a sondare nuovi territori nella creazione contemporanea, fino a divenire l’interprete maggiore della non-danza. Il suo spettacolo simbolo è May B, creazione del 1981, replicato centinaia di volte in tutto il mondo e tutt’ora in tournee. Nel 2012 è stata l’ospite principale del Festival D’Automne a Parigi, dove ha presentato ben sei sue produzione, fra nuove (Nocturnes e Faces) e repertorio (Cap au pire, Ça quand même, Cendrillion, May B). Nelle sue creazioni sono spesso evidenti tracce dell’opera di Samuel Beckett. Umwelt è una creazione del 2004 da cui è nata una nuova produzione nel 2013. Lo spettacolo è stato visto al Théatre Paul Eluard di Bezons, Paris, 7 gennaio 2014.
«Sans ici ni ailleurs où jamais n’approcheront ni n’éloigneront de rien tous les pas de la terre.» ( Samuel Beckett- Pour finir encore)
C’è una situazione di vaghezza che ti prende all’ingresso in sala: una vaghezza derivata dalla strana scenografia che ti si presenta, sul palco aperto, fatta da una serie di lamine verticali, poste sul fondo, sottili, larghe mezzo metro l’una circa, disposte su più file e a una certa distanza l’una dall’altra, come a formare dei separé, delle piccole quinte. Il colore vagamente – torna la parola “vago”, mi viene da pensare che vague in francese significa “onda”, e vague è una delle parole essenziale del vocabolario beckettiano, “vague” (onda) che assomiglia a “bague” (anello) – vagamente grigio, si intuisce che la superfice, secondo come la luce vi pioverà sopra, potrà diventare uno specchio che rimanderà però una realtà “vaga”.
La scena è in realtà divisa in tre parti: nella prima, verso il fondo, queste lamine di ghiaccio, quinte fissate solo al pavimento; poi la parte centrale, vuota; quindi la terza parte, verso il proscenio, che presenta tre chitarre, disposte a terra con il corpo a favore del pubblico e il manico rivolto al fondo.
Lo spettacolo inizia con i danzatori – ma possono ancora dirsi danzatori, se in tutto lo spettacolo ci sarà solo una breve figura di danza? – che si presentano al pubblico, lo guardano o si fanno guardare, come più vi piace. Poi scompaiono. In May B, verso oltre la metà dello spettacolo, la Marin fa entrare tutti i suoi personaggi, i personaggi di Beckett, che fermi si fanno guardare o ci guardano. Il discorso mi pare riprenda da lì, con una differenza: qui non ci sono personaggi, non c’è Hamm, non c’è Clov, non c’è Pozzo né Lucky; i danzatori, come potremmo incontrarli per strada, vengono fuori dai corridoi fra le fila delle lamine-quinte, sostano per qualche secondo, più di qualche secondo, e poi scompaiono. Da qui in poi avviene il cataclisma: intanto la negazione alla vista, come se i danzatori rifiutassero di performare il loro copione di fronte al pubblico, e perciò quasi tutto avviene di spalle, laddove non è possibile, di fianco a guardare verso destra o sinistra del palco, e ciò che succede si può raccontate come l’esplosione di un meccanismo che mette in scena l’uomo, l’essere umano, nelle sue più banali e convenzionali forme, nell’esecuzione di un gesto comune, tutto in una solitudine di atti, solo sporadicamente interrotta, quando si cerca una relazione, più spesso una relazione fra uomo e donna, che porta in sé i segni della disperazione, un uomo che guarda il mondo e la donna che si butta al suo collo nel tentativo di farsi sorreggere, coppie che si baciano ma scompaiono subito, nella subitanea incertezza del tempo, e poi ancora uomini che sorreggono sulle spalle donne nude, come quarti di bue, cosa che in effetti avverrà pure.
I danzatori appaiono e scompaiono da queste quinte, mosse da un vento incessante, sconvolte da una musica materica che interferisce con il suono delle tre chitarre, le cui corde vengono sollecitate da una fune senza fine che si srotola da uno “gliommero” , meglio, da un mulinello posto sull’altro lato del palco.
Gli attori compiono i loro gesti semplici, radersi, alzarsi i pantaloni, si presume dopo aver defecato, fischiare un fallo in una posa da arbitro di calcio, contare soldi, asciugarsi il viso, prima in una soluzione solitaria, poi più attori contemporaneamente, che sortiscono dalle diverse fughe fra le quinte, che intanto vengono sconvolte da questo vento e dalla musica.
Di tanto in tanto uno di loro si ferma, poi sono in due, poi in tre e così via, a fermarsi di fronte al pubblico a guardarci o guardare la scena, che in effetti si illumina, e a questo punto si compie come un miracolo: la danza non è sparita, diventa un effetto indotto, vediamo le nostre “vaghe” sagome e poi il resto della scena – scena che man mano si riempie di detriti, di oggetti buttati dopo essere stati consumati, ossa, materiale di scarto, donne, bambini, parrucche – riflessa nelle quinte più prossime alla nostra vista, tutto si muove e danza, fino a che non si ritorna a questo inutile giro, che rimanda nella mia memoria a Quad di Beckett, lo penso immediatamente, per l’insensatezza del movimento che sembra come il meccanismo di un orologio, nella sua inesausta ripetizione, e la conferma di Quad come elemento strutturato nel pensiero dell’azione mi viene quando dal fondo, fra le quinte, compaiono dei personaggi completamente avvolti in una djallaba, come prescrive Beckett; appaiono in un movimento quasi a pendolo e scompaiono.
Non c’è altro in questo spettacolo, forse non può esserci altro. Non c’è la devastante bellezza di Faces, né il dominio dell’assoluto di May B. C’è il radicalismo incondizionato di un’artista che metta in scena l’uomo, e facendo ciò reinventa costantemente l’idea dello spettacolo dal vivo. Con Umwelt siamo dalle parti del capolavoro. Lo spettacolo parla all’intelligenza dell’anima e della ragione, per questo va visto, fatto sedimentare e rivisto. Ha ancora perle da mostrarci, dopo averci ferito con la sua visione.
Immagine di copertina Timothy A.Clary/ AFP
Umwelt, con Ulises Alvarez, Charly Aubry, Kaïs Chouibi, Estelle Clément Bealem, Laura Frigato, Daphné Koutsafti, David Mambouch, Mayalen Otondo, Ennio Sammarco Musiche di Denis Mariotte
Salvo Gennuso è regista teatrale, drammaturgo. Dirige la compagnia Statale 114 di Catania. Lavora per il teatro, nel sociale, si occupa di letteratura e arte.