Suggestioni critiche di Fernando Mastropasqua su A Carmelo, per il Bene di tutti di Erika Di Crescenzo/Cie La Bagarre.
La sensazione generale è quella di trovarsi davanti a uno spazio liminare nella stessa posizione in cui si veniva a trovare l’antico spettatore greco davanti alla skené una soglia che immetteva in un territorio proibito, dove solo il teatro ardiva avventurarsi, un luogo della morte, tanto è vero che qui si commemora (si cerca, si evoca, si tenta di scovare un fuggente morto del teatro).
Ma a differenza della skenè greca qui la scena è modernissima, anzi oltre la modernita (ignorandone pero la tecnologia piu avanzata e fredda e conservando la vecchia calda tecnica artigianale del teatro), una scena che costringa a evocare un altro grande morto del teatro, quel Gordon Craig che aveva pensato alla scena come luogo che agisce in combutta con l’attore, con la sua mimica gestuale, con il virtuosismo della sua voce, con la musica, una scena mobile ed espressiva, non decorazione né ambientazione, ma che si trasforma nel tempo dello spettacolo fino a diventare all’estremo limite la scure che distrugge lo stesso teatro come luogo fisico. Tale richiamo non può che stanare il morto commemorato che alla fine del suo processo artistico aveva risucchiato ogni arte del teatro nella pura phonè. La prima sensazione che si prova è proprio questa, quasi che un sottotitolo nascosto dello spettacolo (Per il Bene di Carmelo) potrebbe essere Stanare Carmelo, intrappolarlo nella rete delle quinte mobili in più e inaspettate direzioni, una scena in movimento che lo insegue, lo avvolge e dalla sua voce si lascia avvolgere: le quinte-letti funebri danzano nell’aria, a volte rivelano squarci di luoghi deputati, come il cimitero-orto, il pupazzo fissato a cantinelle in forma d’aratro, sostengono i corpi delle due attrici in azione o li abbattono come inesorabili ghigliottine; nel loro moto generano tenebre o lampi improvvisi, mostrano situazioni o fanno precipitare silenzi improvvisi e buio, accompagnando voci sorte dal nulla, abbandonandosi al ritmo di suggestioni musicali che piombano nell’area d’azione.
Tale luogo inaudito è il cimitero del teatro che accumula polvere e voci. Gli spiriti soffiano da punti diversi e spiriti forse sono le due attrici che agiscono in scena insieme alle quinte e alle luci: sono alla ricerca del morto fuggente, sono fantasmi che celebrano un rito notturno e ritornante, sostenute o spente dalle quinte mobili, aiutate o ostacolate da una tomba scrivania (metafora di sapienza teatrale) che esse stesse muovono, aggrediscono, percorrono, nascondendosi o salendovi sopra, mentre il terribile soffio vitale del morto in fuga le circonda, le copre, le esalta, le invade di infinita ironia; come quel ritratto dell’attore oppure la mano scheletrita che non può non ricordare il gioco cinico degli attori a Elsinore che si rimpallano le ossa di morti (Amleto di Carmelo Bene).
Il rito non finisce con il (falso) finale: quando Flora muore e su di lei si abbatte e si stende come un sudario la quinta funebre, dopo gli inevitabili applausi e gli altrettanto inevitabili ringraziamenti e ripetute chiamate, lo spettacolo ricomincia, riprende un parlottare, un duettare, un misurarsi, un nuovo viaggio sulla scrivania in quel cimitero nutrito da morti sapienti e nutriente, in quel cimitero che produce fiori, ma anche ortaggi, cibi dello spirito della carne, della vanità e della gloria narcisistica, come anche dell’umile ma necessario mangiare, della contadina fatica, dell’affiorare dalla polvere morta del ritorno della vita eccessiva del teatro. Tra gli oggetti simbolo fondante, che appare in posizione diverse e in rapporto prima all’una e poi alla seconda attrice, è infatti la vanga, che dissoda il terreno che scava, che copre e diseppellisce. Come non pensare alla scena dei becchini nell’Amleto di Shakespeare? Altri oggetti si palesano in scena in funzioni diverse, come il cannocchiale, il cimitero-orticello, i cespi di fiori, il pupazzo retto da cantinelle in forma d’aratro, illuminato da un’alzata di quinta, ecc.
Il falso finale potrebbe far pensare a uno spettacolo circolare che finisce per riprendere da dove è iniziato; in realtà il movimento non è circolare, perché si ricomincia ma da un nuovo punto, ovvero da una nuova scoperta, da una nuova fuga dell’attore morto, eccetera. E’ piuttosto un movimento a spirale, per cui il cerchio non si chiude ma si muove per dare forma a un nuovo cerchio che ugualmente non si chiuderà, ma guadagnerà un livello superiore. E’ il moto del labirinto. E nello stesso tempo, direbbe Henry Miller, è un insulto all’arte. E questo sarebbe piaciuto molto a Carmelo.
Fernando Mastropasqua, già docente associato di Storia del Teatro all’Università di Pisa e di Antropologia teatrale al Dams di Torino, ha pubblicato numerosi saggi e volumi sul teatro greco, sulla regia moderna, sulle feste della Rivoluzione francese e su Carmelo Bene. Tra i titoli: Metamorfosi del teatro, Maschera e rivoluzione, In cammino verso Amleto. E’ nel comitato scientifico di “Critica d’arte”, storica rivista d’arte visiva creata da C.L.Ragghianti.