Materiali Ariane Mnouchkine
”Ho l’impressione che il nostro teatro sia attraversato non solo dall’eco del mondo ma dal mondo stesso… Ci siamo talvolta sentiti assediati dalle persone che venivano da fuori, che avevano bisogno di stare da noi, che volevano farsi ascoltare, avevano bisogno della nostra protezione, avevano cose da raccontarci, da comunicarci, da insegnarci. Penso che il meno che si possa dire è che in questo momento il Théâtre du Soleil è attraversato dal mondo, ci sono persone d’ogni dove.”
Poche compagnie teatrali possono vantare la longevità del Théâtre du Soleil di Ariane Mnouchkine, regista francese che ha messo in scena la Storia, la Rivoluzione e la lotta dei popoli per la libertà (1789, 1793, L’Age d’Or). Stare una sera alla Cartoucherie, sede storica della compagnia nel bel mezzo del Bois de Vincennes, è un’esperienza unica che, per chi ama il loro teatro, giustifica da solo, un viaggio a Parigi. La cena, un caffè o la limonata del deserto insieme agli attori e agli altri spettatori prima e dopo lo spettacolo, la visione ravvicinata degli artisti che si truccano, Mnouchkine che si intrattiene a parlare “in amitié” con chiunque, è qualcosa che difficilmente si cancella dalla memoria.
L’ULTIMO CARAVANSERRAGLIO
Odissee
Mnouchkine parla di un’umanità intera che vaga alla disperata ricerca di un approdo.
Il teatro racconta questo movimento di fuga, questo viaggio incessante con assi con ruote, sopra cui sono appoggiati i personaggi, spinti da altri da cui dipenderà il loro destino futuro. La ragazza albanese deportata per prostituzione, l’iraniano che si imbatta in una cattiva traduttrice che non sa la differenza tra Iraq e Iran e per questo errore non ottiene il visto, le autorità australiane che intimano a una carretta del mare da un elicottero di ritornare indietro….
Qualcuno è riuscito a passare, qualcuno è rimasto dall’altra parte. Il passaggio avviene attraverso una corda tesa da una parte all’altra. La scelta è di separarsi o di correre il rischio di essere inghiottiti dai flutti, e cadere in una separazione irrimediabile.
Hélène Cixous, la scrittrice del Théâtre du Soleil, scrive nella premessa che apre il libretto:
Oggi, nuove guerre gettano sul nostro pianeta centinaia di migliaia di nuovi fuggitivi, frammenti di mondi disgregati, brandelli tremanti di paesi devastati i cui nomi non significano più rifugi-riparo natali, ma rovine o prigioni: Afghanistan, Iran, Irak, Kurdistan…, la lista dei paesi avvelenati aumenta ogni anno. Ma come raccontare queste innumerevoli odissee? Quanti nuovi piccoli teatri bisognerebbe inventare per dare a ogni destino impazzito il suo effimero asilo? Come non sostituire la tua lingua straniera con la nostra lingua francese? Come conservare la tua lingua senza mancare di gentilezza e di ospitalità nei confronti del pubblico, il nostro ospite nel teatro? Come comprendersi col cuore senza comprendersi a parole? Come non appropriarsi dell’angoscia altrui facendone del teatro? Come non sbagliare per illusione o per paura di comprensione? Come dire tutto senza una parola? E se non ci riusciamo? È la domanda del rifugiato nel suo viaggio
Photo 2 : Perdus dans l’océan après le refus des autorités autraliennes
Photo de répétition Charles-Henri Bradier
Photo 3 : Chaque fois que la maison iranienne entre, je me fais : « Ah ! Mon Dieu ! ». C’est hallucinant, hallucinatoire en l’espace d’une seconde de se retrouver exactement là-bas, par des petits objets, par de petites choses(Shasha, comédienne d’origine iranienne).
Photo de répétition Charles-Henri Bradier
Photo 4 : En général, dans les miniatures persanes, tout est dans le cadre, sauf un bout d’arbre ou une main qui dépasse … (Shasha)
Charles-Henri Bradier
Photo 6 : Le personnage est la vision de quelqu’un et pour moi, a priori, cette personne ne meurt pas. (Shasha)
Qu’est ce qu’un réfugié ? Etes-vous un réfugié ? Pouvez-vous prouver que vous êtes, point par point, l’être défini par les lois internationales comme ” réfugié ” ?
Le réfugié est celui qui doit avoir les preuves qu’il a tout du ” réfugié “. C’est-à-dire, qu’il a bien rien. Qu’il obéit aux critères qui font d’un homme un ” réfugié “. Qu’il est en danger de mort pour de bon. Qu’il n’est pas un faux. Un simulateur. Un menteur. Un imposteur. Un voleur de droits. Qu’il est orphelin comme il faut. Qu’il est sans sol, sans patrie, sans ressource, sans secours. Devant le tribunal qui l’examine, le voilà soupçonné, accusé, prévenu et, si par malheur il s’est présenté en suppliant devant l’Australie, le voilà appelé agresseur et enfermé au Bagne, sans forme de procès, sans avocat, sans terme assigné au supplice, expulsé et du lieu et du temps. On est en fuite devant les sbires de Saddam Hussein depuis vingt ans, errant caché, du Koweït aux lisières des pays d’Iran, on est citoyen de nulle part et propriétaire de rien, et, pour couronner le tout, on arrive en Australie !
Là, même les enfants ne trouvent pas grâce ni pitié.
Les Ephemères è un vero spettacolo-fiume in cui si raccontano quasi sottovoce, le piccole cose della vita, ricordi lontani e dolori familiari che offrono uno scorcio assai realistico delle variegate vicende umane e delle relative problematiche e divisioni sociali. Il tutto (attori e oggetti di scena) raccontato in una pedana mobile mossa all’uopo da servi di scena (repousseur), modalità inaugurata dal gruppo ai tempi di Le Dernier Caravansérail. Centrale è la macchina scenico-cinematografica utilizzata (i carrelli) e il luogo dell’azione, assai ravvicinata al pubblico, entrambi scaturiti dalla necessità di avere uno spazio come “un’arena, una lente di ingrandimento: non è possibile essere più vicini di così. Ci guardiamo e allo stesso tempo guardiamo questo luogo di accadimenti affettivi”.
Uno spaccato o se vogliamo, una miniatura della società di oggi: tanti ritratti intimi, tante tessere da “ritessere continuamente”. Sono interni di famiglia, un affresco antropologico trans generazionale dove le persone e i destini sono catturati nel momento del dolore, del lutto della mancanza. Una struttura narrativa inserita in un dispositivo scenico fortissimo.