Lascia abbastanza senza parole lo spettacolo (ancora in progress) NIENTE (farsa nera) della brava e bella Valentina Capone (già premio ETI come miglior attrice emergente)che ha voluto con sé in questo curioso esperimento teatrale di “fantacronaca”del delitto Erba, lo straordinario Cosentino multifacce, portatore di maschere, mimo, narratore, il Cosentino di TeleMomò.
L’argomento ovvero la trama, la conosciamo dalla cronaca e dalla TV: Rosa maniaca delle pulizie, del silenzio e dell’ordine, fa scatenare l’inferno al mite Olindo che per accontentarla, sgozza un’intera famiglia con bambino, rea di disturbare con i rumori più svariati, proprio loro che sono i vicini di casa.
Già descritta così sembra una perfetta tragedia elisabettiana dalle tinte forti, uno Shakesperare del primo periodo perché tale fu la violenza usata sui corpi delle vittime, ampiamente ricordata dalla TV; ha ragione Cosentino a tralasciare i dettagli di cronaca, perché tanto “il plastico di Bruno Vespa ha già detto tutto”.
E ancora una volta, come già con “Angelica”, la riflessione cade sulla morte vissuta in Tv, ovvero la finzione della verità (o la sua costruzione menzognera). Se l’argomento intriga perché a teatro -che appunto, non è la televisione- non se ne parla mai perché ci sguazzano altri media, cannibalizzando vite e distorcendo fatti, il récit lascia perplessi perché la somma di numerosi pezzi anche di bravura comica, (e che possiamo dire di Cosentino se non che è il migliore attore comico della scena teatrale italiana?), sketch straneanti in cui passano in rassegna Rosa in casa con le pattine e l’eterno detergente, e Olindo con i fumetti di Dylan Dog e la sequenza di tutte le loro manie, non sono forse sufficienti a produrre un punto fermo per gli spettatori (una riflessione su delitto e castigo? una disanima della violenza sotterranea nei paesini della bassa Padana? una parodia della spettacolarizzazione della morte in TV?).
Certo lo spettacolo si deve assestare, come ci hanno spiegato gli autori e i Festival servono a mostrare questa fase del lavoro che Pareyson nella sua Estetica avrebbe definito “formante”, quando cioè ancora le idee devono trovare una forma definitiva.
La domanda a cui lo spettacolo cerca di dare una risposta è: Come si racconta la tragedia contemporanea? Attraverso quali filtri si attua la catarsi tragica dell’antico? Come si passa dalla tragedia alla farsa (nera)?
Interrogativi che ci riconducono alla storia del teatro, Rosa-Salomé che non con la danza dei sette veli ma con la rassicurante e banale quotidianità fatta di TV accesa e aspirapolvere, convince Erode/Olindo a macchiarsi di sangue. Compiuto il rito, torna il silenzio.
Anche se quello che è accaduto non è un regicidio, Rosa assomiglia un po’ a Lady Macbeth, personificazione del male; lo ricorda anche il Cosentino narratore, è colei che spinge l’uomo a uccidere e poi a macchiarsi le mani lei stessa di un sangue indelebile che nessun detergente con tensioattivi porterà via.
L’attore parla al pubblico “tra le righe”, un po’ per prendere in giro il personaggio stesso che sta recitando, con un distacco ironico che allenta la tensione di quelle immagini e quelle parole che ritornano alla memoria perché fissate nell’immaginario di tutti, un po’ per ricordare continuamente che siamo a teatro.
In realtà dentro questo spettacolo ce ne sono dentro almeno altri due o tre anche in forma di “autocitazione d’autore”
Se la decisione di restituire non personaggi ma maschere, e la storia -almeno parte di essa-attraverso i cavi occhi dell’oggetto simbolo del teatro, poteva rivelarsi vincente, facendo rinunciare agli attori di imitare la vita, il gesto straordinario di assumere un’identità più vasta non convince completamente. Si tratta di un primo allestimento, quindi come altri spettacoli visti al Festival Inequilibrio, da qua gli autori sicuramente partiranno per ridefinire caratteri e forma.
Intervista a Cosentino
1.Partite dalla tragedia contemporanea e sulla morte in Tv, argomento che già avevi affrontato con Angelica ma qua i personaggi non sono immaginari ma reali. Non c’è il rischio di far diventare il teatro una “fantafiction?”Un docuteatro?
In realtà nello spettacolo cerco di non cedere mai alla tentazione di “sceneggiare” il fatto reale. Da un lato, ed è il nucleo originale da cui parte questo lavoro, c’è la riflessione farsesca sul tragico a partire da un caso specifico di cronaca nera a tutti noto. Dall’altro, il confronto nudo e crudo con testi che sono le trascrizioni di interviste, dichiarazioni e confessioni. Solo montate e riassemblate, ma mai rielaborate e sceneggiate appunto.In entrambi i casi, la questione che mi interessa a fondo è: cosa ha da dire il teatro a confronto con una realtà che si automanifesta in maniera prepotente e talvolta scandalosa?
2. I personaggi indossano maschere,Pulcinella tra le altre quale il motivo di questa scelta?
Pulcinella è il popolo. Il tentativo è di parlare attraverso questa maschera, utilizzata in maniera tutt’altro che folklorica e tradizionale, di una mutazione antropologica in atto.
3.Artaud nel prologo: per farla finita con il giudizio dei telespettatori?
Artaud è un mio doppio cui sono affezionato, e qui è il prologo e l’epilogo, si tiene fuori della tragedia e ne costituisce la cornice. E’ ancora lì a porsi comicamente domande fondamentali, la cui risposta non è affatto scontata.
4. Olindo e Rosa vengono interpretati in modalità abbastanza diverse, come avete improntato sia la drammaturgia che la scrittura scenica con Valentina? Questo è un primo studio, come volete proseguire nel lavoro teatrale?
Olindo in realtà qui manca, è traslato in un Pulcinella surreale e cinico e indolente, che nulla vuole avere a che fare con l’autore del delitto. La dialettica fondamentale del mio Olindo/Pulcinella non è verso l’evento, quanto piuttosto verso il drammaturgo (il mio alter ego autoriale presente in scena), ed è volto a deridere ogni pretesa di tirar fuori un senso dalla riscrittura del fatto. Alla fine, come dichiarato anche dal titolo, qui si parla di insignificanza. Si ciancia di niente e ci si agita sul vuoto. Per contro Valentina instaura un corpo a corpo con le parole della vera Rosa, compito ingrato e per certi versi impossibile. Non si tratta di monologare con i versi di un drammaturgo, ma di appropriarsi e disappropriarsi di una oralità congelata in intercettazioni e dichiarazioni. In qualche modo, credo, nel prosieguo del lavoro dovremo approfondire ulteriormente questo corpo a corpo con il reale, dichiararne l’assurdità fino anche forse a manifestarne lo scacco.
5. Nello spettacolo ci sono molte “autocitazioni” da Telemomò a Artaud le Momò, perché la necessità di riprendere queste modalità che appartengono alla tua attività teatrale ma di artista monologhista?
Se vuoi è la mia polemica ma anche la mia risposta a un sistema teatrale che reputo mortifero, che costringe alla continua messa in opera di spettacoli che saranno visti dal solito centinaio di addetti ai lavori, e nessun altro, magari recensiti e premiati, e finita lì, fino all’anno successivo quando dovrai inventarti un nuovo capolavoretto, e via così fino alla spremitura del limone. Per quanto mi riguarda, quando si fa teatro indipendente – per vocazione o destino generazionale – non si hanno le risorse per convogliare dentro uno spettacolo la creatività di un collettivo di artisti attori tecnici scenografi, come accade o dovrebbe nei Teatri Nazionali, né tantomeno qualcuno ti finanzierà per stare anni a scrivere e provare un singolo lavoro, come accade, sempre più raramente in verità, nei Centri di produzione e sperimentazione. La tua opportunità dunque, non è puntare alla perfezione di un’opera, al capolavoro, ma diventare tu stesso la tua opera. Non penso al mio sviluppo artistico come a una serie di spettacoli più o meno riusciti, ma come alla costruzione della mia identità, attoriale e autoriale assieme. Un po’ comico dell’arte, che si porta dietro le sue maschere e i suoi lazzi più riusciti, un po’ jazzista che lavora a trovare il suo suono e il suo stile. Riconoscibile e inimitabile.