Amore ha le voci bianche alternate nelle varie recite dei giovani solisti del coro del Conservatorio di Wasquehal. Nel mito più conosciuto di Ovidio, Orfeo grazie al suo meraviglioso canto, può scendere nell’oscurità degli Inferi alla ricerca di Euridice per riportarla per sempre alla luce a patto di non volgere il suo sguardo sull’amata prima di uscire dal buio. Orfeo non attende la luce e a causa di quello sguardo, Euridice torna tra le creature dell’oscurità. Il tema di Orfeo è il tema della voce e dello sguardo, delle tenebre e della luce, della felicità scorta e dell’eterna sua ricerca o ricordo. E’ insieme, il tema del teatro e il tema della vita. La musica di Gluck, punto chiave della riforma dell’opera seria, racconta del mito d’Orfeo e Euridice l’aspetto drammatico ma con un “happy end” in ossequio all’assunto cortigiano legato al testo-sorgente: La favola d’Orfeo di Poliziano. Quindi il mito classico col suo finale cruento (Orfeo viene dilaniato dalle Baccanti: da vedere la versione filmica modernizzata “Orfeo nero” di Marcel Camus) va in cantina grazie al libretto di Ranieri de’ Calzabigi: “Per adattare la favola d’Orfeo alle nostre scene ho dovuto cambiar la catastrofe” e i nostri protagonisti vivranno felici insieme nei Campi Elisi.
La regia poetica, delicatissima, toccante di Castellucci ha scelto di usufruire di una videoproiezione con immagini girate in diretta da un letto di ospedale dove è ricoverata, in stato di Locked-in o coma vigile, una giovane donna belga, Els (un nome d’invenzione), privata dei movimenti del corpo ma senziente. Del momento in cui la musica di Gluck/Berlioz ascoltata da un cd in macchina suggerì a Castellucci l’immagine della donna ricoverata in coma, si parla nel programma di sala. La scelta non fu dettata da un freddo ragionamento sull’importanza dell’ interrogarci oggi, anche a seguito di numerosi ed eclatanti casi riportati dai media, su quel confine sottile tra la vita e la morte che questi pazienti in coma in seguito a traumi cerebrali, ci pongono di fronte, ma dalla forza della musica stessa. Che comunica uno stato di grazia e di sublime felicità interrotta da un dolore indicibile.
La scena è composta da un gigantesco schermo e al centro del palco una sedia vuota. Lì si collocherà Orfeo per alzarsi durante le arie cantate, i cori, i duetti e i recitativi. A fianco a lui solo un macchinario con luci a led che ricorda quelli per il monitoraggio dei malati in ospedale. L’altro personaggio, protagonista della nuova drammaturgia di Castellucci, è Els la cui storia è raccontata da scritte proiettate, come fossero il vero libretto d’opera. Anzi proprio in questo “montaggio alternato” della storia di Orfeo e Euridice e di Els e del marito che tenta in vano di riportarla in vita, sta la preziosa invenzione di Castellucci. Le due storie che procedono di pari passo nel racconto musicato, nell’azione teatrale, sembrano coincidere in modo impressionante. Il parallelismo tra mito e tragedia intima si fa stretto.
Fino a quando Orfeo piange per Els e cancella il mito antico. Il testo è l’eco del dolore presente. Els sbatte le palpebre, unico organo miracolosamente intatto che le permette di comunicare all’esterno e dare concretezza al suo sentire inudibile. Nel libretto di Calzabigi la scena si apre con Euridice morta: sarà Amore a intercedere e a indicare la via per l’Ade a Orfeo. Al racconto della morte di Euridice corrisponde il dramma inaspettato di una trombosi cerebrale della giovane Els mentre era in casa con i bambini piccoli. Il dolore di Orfeo è reso celebre dalla triplice invocazione d’apertura a Euridice a cui si incrocia la vicenda, levata della patina della cronaca, di Els che acquista i tratti e la qualità poetica di un haiku giapponese, con memorie del quotidiano accennate nel loro passaggio fuggitivo.
Amore porta Orfeo nell’Ade da Euridice, ma un altro uomo si sta dirigendo in un inferno fatto di camere asettiche, di respiratori, di silenzi. Tutto è sfuocato e il viaggio prende la forma di una strada vista da una macchina in corsa. Che conduce prima in un boschetto di verzura (i Campi Elisi/i giardini dell’ospedale) e poi alla stanza 416.
Un corridoio bianco che termina in un quadrato nero: è la porta verso l’inconosciuto: “L’inferno invano ci separa” dice Orfeo. “L’amore tiene in vita la fiamma”.
L’atto 4 è l’incontro, il contatto: “Vieni, vieni Euridice, sono io”. La mano sfiora Els con tenerezza. Gli occhi si incontrano, regna la calma dei sensi. Noi siamo Orfeo che cerca la sua amata, noi siamo il marito di Els che la conforta, noi vediamo e noi viviamo come in una soggettiva quel momento e quel luogo mai visitato. Le immagini rubate ma piene di sensibilità e pudore, hanno bisogno di un dono come contropartita: il baratto è la musica del cantore Orfeo, venuto in questa stanza d’ospedale apposta per confortare la mente di Els e ravvivare la sua memoria. E così una cuffia le fa raggiungere un mondo di suoni. Chissà quale emozione a sentire raccontata la sua storia! Non ci è dato saperlo. Lo spettatore vede contemporaneamente Orfeo in primo piano in scena, Euridice dietro lo schermo ammantata da una luce irreale e in mezzo Els che da lontano partecipa. Per un attimo prova a immaginare cosa e come possa sentire Els, e spera nell’impossibile. Ma questa non è la favola di Poliziano. Può forse, la musica insieme con l’amore del suo Orfeo, aver alleviato la sua condizione? E che significato ha il gesto finale, di tenerezza, con cui la mano che ha donato il sollievo edenico transitorio ed effimero a Els, le porta via delicatamente la cuffia e l’accompagna dolcemente verso il riposo? E la porta che si chiude dietro il nostro sguardo?
Ognuno di noi, seguendo la propria etica, trovi la sua risposta. Lo spettacolo ci ha accompagnato delicatamente in un territorio mai esplorato nell’arte dove la vita è fatta di altri gesti, altri suoni, altre comunicazioni e dove, una volta entrati, non possiamo sottrarci ad interrogativi a cui sovente gli uomini si fanno latitanti.
Il cantante Orfeo in scena durante il lungo brano orchestrale, ha gli occhi chiusi: la sua voce intona la triste aria“J’ai perdu mon Eurydice“. Euridice ritorna nell’ombra, dietro il velo dello schermo. Tutto affoga nel buio. Il confine tra finzione e realtà scompare nel dolore profondo qui e ora che l’attraversa; non mette in scena il dolore ma lo emana con il suo proprio respiro. Questo irrigidimento catatonico, questa atassia gli fa ricacciare dentro urla, lacrime e lamenti. Ma si può dare forma al dolore? La solida carne dell’attore può sciogliersi in lacrimecome si chiede Amleto?
Fuori dall’ospedale, fuori dal teatro, al risveglio di tutti noi, domande sulle ombre che popolano il nostro devastato mondo, sulla vita umiliata in un unico destino. Il teatro non promette paradisi ma uno sguardo sull’inferno in cui ogni vita è in lotta per sottrarvisi. Di questo lo spettatore è sofferente testimone.
Meraviglioso lo scenario finale in video 3D creato da Apparati effimeri, già collaboratori di Castellucci per ilParsifal, molto attivi nelle installazioni video e negli spettacoli con videomapping, che riporta dall’atmosfera mesta al paesaggio bucolico degno di un quadro di Nicolas Poussin da dove emerge una eterea figura femminile. Siamo in Arcadia, la scena si svela e il video proietta sulla scenografia con effetti speciali di grande precisione, l’illusione del vento sulle foglie, le luci sulle acque e le ombre della sera. Vale per il lavoro di Apparati effimeri la frase dello scultore di luce Josef Svoboda: “La tecnologia è capace di azione drammatica, la tecnica misura l’emotività”. Il barocco tecnologico di Apparati effimeri genera lo stupore e la meraviglia riservati ai grandi affreschi del passato ed è perfettamente in sintonia con quest’opera che privilegia una partecipazione emotiva e sensoriale.
Un pubblico commosso in un teatro tutto esaurito da mesi, applaude senza sosta agli interpreti, al regista, al direttore d’orchestra, al coro. E riserva uno speciale tributo a Els, presente come scritta centrale in un enorme schermo.
Dedicato a Igor V.
Orphée et Eurydice
Direzione musicale: Hervé Niquet
Regia: Romeo Castellucci
Assistente alla regia: Silvia Costa
Scena, luci e costumi: Romeo Castellucci
Drammaturgia Christian Longchamp e Piersandra Di Matteo
Video: Vincent Pinckaers
Capo coro:Martino Faggiani
Orfeo: Stéphanie d’Oustrac
Euridice: Sabine Deviellhe, Els
Amore: Clément Bayet, Michèle Bréant, Fanny Dupont.
Orchestra sinfonica e coro de La Monnaie – De Munt
Visto al Teatro de La Monnaie – De Munt di Bruxelles il 21 giugno 2014