Da sempre, penso, l’uomo ha avuto la necessità di costruirsi degli schermi, di limitare le misure e confinarle entro più lati, di dare cioè, una dimensione all’infinito che gli stava davanti. E’ per vincere definitivamente questo sentimento della paura, di limite che si potrebbe avere nella percezione dell’infinito che l’uomo genera il suo capolavoro: non più porre limiti dentro la realtà, ma porre la realtà dentro i limiti, reinventandola. Paolo Rosa
Spazio-limite, spazio-possibilità
Tre paracadute sono sospesi nel vuoto della stretta e lunga ex struttura industriale della Marzotto – ora sede dei Dipartimenti Scientifici dell’Università di Pisa – che limita lo sguardo e impedisce loro di spiccare il volo; all’interno e all’esterno del reticolato a velatura sottile del paracadute sono proiettate immagini messe in movimento mosse da un getto d’aria direzionato su alcune zone sensibili del telone. I corpi nudi, quasi navigando in assenza di gravità, si depositano, si avvolgono nella concavità-convessità del paracadute, ripiegandosi come in un ventre. Tre paracadute dalla trama-tela di ragno che respira e si lascia attraversare dall’aria si srotolano in sospensione: sono incatenati, trattenuti nella loro dilatazione “alare” da una barriera architettonica. Il limite svelato è il mondo e il contesto è lo spazio: è lo spazio negato, lo spazio della costrizione, della distanza e dell’assenza; il limite-cornice della struttura architettonica isola e separa da ogni contatto, nega ogni “convivenza ambientale”. L’installazione è un “osservatorio” sulle possibilità di espansione, ma non di dominio, dell’uomo: si estende dal microcosmo della tela-paracadute all’infinito dello “spazio extraplanetare” della sensibilità umana. Dal recinto architettonico che aggredisce e racchiude in gabbia il corpo colto nel suo tentativo negato di librarsi in aria (e con esso tutto il territorio dell’agire artistico e tutto il sistema dell’arte del vedere e dell’sporre) alla riappropriazione dello spazio vitale, fuori da ogni cornice-confine-schermo che rinchiude e fissa le regole dello spazio di movimento.
Cerchio, ellissi e levitazione
La calotta del paracadute avvolge in un abbraccio parabolico i corpi che, come satelliti solidali, sono in movimento orbitante di rotazione-rivoluzione intorno al proprio o altrui asse. La circolarità è il principale tema visivo, ripetuto, in un contenimento delle varianti, nei movimenti e negli oggetti – palla, ruota, anfora – e nella forma stessa del dispositivo che li ospita, da dove partono e dove rientrano. Restare nell’orbita umana significa includere le leggi del suo esistere, correggere l’errore di parallasse, cercare altre coordinate, altri centri di gravità, altri punti di osservazione, rivendicare una presenza e una posizione nel mondo. La forma del paracadute rimanda alla familiare sfera schiacciata ai poli, che ci contiene, il movimento elissoidale dei corpi-pianeti, alle leggi di Keplero. Ma soprattutto il volo del paracadute sopra la verticale dell’esistenza di ognuno, riconduce a un sollevarsi interiore, a una tensione di ascesa, al desiderio di oltrepassare ogni limite, staccare le ali da terra per ritornarvi, rivitalizzati da una nuova consapevolezza. Lo spettatore, collocato dentro il cerchio iniziatico dell’installazione, prende fiato, recupera le proprie forze e il proprio corpo, atrofizzato nella posizione rigida imposta dal sistema, si riappropria del proprio spazio vitale, sola sopra i confini di stati sovrani, stabilisce nuovi rapporti. Nella città che ospita il battaglione della Folgore, quello stesso dispositivo usato dai paracadutisti diventa il simbolo di una necessaria mutazione-trasformazione dell’esistenza. Studio azzurro ci ha abituato a operazioni di straniamento di questo tipo: i raggi infrarossi – triste ricordo di una guerra del Golfo vissuta attraverso la sua versione spettacolare televisiva – in Il giardino delle cose, bucavano e rendevano concreto il buio; i raggi X ad uso della polizia aereoportuale in Il viaggio, esploravano storie intime e private; in Kepler’s Traum le immagini satellitari del Meteo ci ricordavano la comune condizione dell’essere sospesi nel cosmo mentre due quarti del pianeta combatte per un lembo di terra.
Il fiato sospeso
L’intero atto teatrale è un rituale concepito per rinnovare la nostra vitalità, per liberarci dalla morte e ciò si compie con un respiro. Questo respiro comincia con un ansito, come quello di un bambino appena nato. Il teatro senza questo ansimare ci soffoca. Insisto sul teatro. Insisto su di esso perché lo riconosco come un rituale senza cui la nostra sopravvivenza perde terreno davanti ai confini della morte sempre invadente, la morte cala su di noi con il suo silenzio senza respiro.Lo scopo del teatro è far ansimare il pubblico. (Julian Beck)
Il soffio anima i corpi, il respiro dà loro moto, quell’impulso generativo-cardiaco di corrente senza il quale sono materia inanimata, persi e risucchiati nel vortice profondo del vuoto dell’esistenza inautentica. Nell’installazione il respiro che riporta alla vita torna a far gonfiare il diaframma e a dar voce a grida, ha la forza propulsiva del getto d’aria artificiale all’uscita del labirinto degli specchi del Luna Park, il ritmo dell’inspirazione-espirazione degli astronauti e dei subacquei in assenza di ossigeno e la qualità rigeneratrice del pranayama yoga (letteralmente respiro guaritore”). Il respiro è nuova creazione, apre a nuovi orizzonti, nuovi mondi e modi possibili del vivere e del sentire e assume nella sua funzione liberatrice e illuminante, la forma iniziatica di un rituale contenuto nella vita quotidiana: un rituale rigenerativo che si compie all’interno del “sacro recinto” del paracadute semplicemente con un respiro perché “Nulla è più naturale del cambiamento” (Julian Beck). Attraverso il respiro consapevole e un sentire collettivo che elimina ogni separazione, l’uomo recupera il significato profondo delle cose, ne scopre le intime relazioni (la trama e l’intreccio). La forza gravitazionale attrae verso l’uomo in una nuova dimensione dove i corpi danzano come in un’armonia celeste, vagano nell’etere, viaggiano sulle frequenze, sulle onde hertziane e sopra gli stati.