Cosa resterà di noi in chi amiamo quando non saremo più? Cosa sopravviverà di noi nel ricordo di altri?
Lucia Calamaro con La vita ferma, sguardi sul dolore del ricordo (produzione Sardegna Teatro-Teatro Stabile dell’Umbria) debuttato al Festival di Castiglioncello il 28 giugno,prova a immaginare una situazione surreale e realissima al tempo stesso in cui in una casa normale,
con padre madre e figlia piccola, ricca degli affetti del quotidiano,piomba inaspettata la malattia e la morte.
Ma a parlare è chi è già morto e che vorrebbe sapere come chi lo ha accompagnato per una parte del suo
cammino, organizzerà i ricordi, perché vorrebbe aiutarlo a ordinarli, come si fa con gli abiti nell’armadio, come le cose nel cassetto, come gli oggetti nello scatolone del trasloco.
Un attimo prima eravamo e subito dopo non siamo più.
Siamo davvero preparati non a morire ma a lasciare il giusto ricordo di noi, una volta congedati dalla vita?
Siamo forti abbastanza per sentire il dolore indicibile di chi si ritrova precipitato in un vuoto fatto di una casa senza mobili, di una giornata senza fine, di un’immagine che ritorna
senza che l’abbiamo richiamata alla memoria?
La Calamaro si avventura con questa straordinaria drammaturgia, in una profonda riflessione filosofica che lascia il segno e la propone magnificamente a teatro,drammatizzando quasi letteralmente passaggi dai testi di Ricoeur (l’immagine-ricordo) per il pubblico del Festival.
Gli attori in questa prima versione-studio dello spettacolo, sono davvero bravissimi a confrontarsi in una prova non semplice come il cercare di oggettivare qualcosa di impalpabile, cercando di restituire con forza e immediatezza, la sensazione terribile di quella soglia irraccontabile del rivivere continuamente immagini del passato (col relativo fardello del dolore conseguenza della morte)
e farle cortocircuitare col presente senza soluzione di continuità.
Si comincia dunque dalla fine, e il gioco teatrale non fa capire subito che siamo già oltre quella soglia che segna
il confine tra essere e non essere più.
Un po’ come nella fotografia del condannato a morte di cui parla Barthes ne La camera chiara, che immortala,
per chi vede l’immagine, colui che contemporaneamente
è morto e sta per morire, il pubblico a teatro vede il personaggio prima della morte e nel momento della morte.
La Calamaro propone a teatro l’enigma filosofico di Ricoeur (presenza-assenza antecedenza) dell’impronta del sigillo che non c’è più, della frontiera tra ricordo,
immaginazione e rappresentazione del passato.
Il ricordo è l’abito a fiori indossato dalla donna, che lo ha cercato con cura e perizia, e la cui scelta
era diventata un’ossessione, fatta la quale semplicemente si va in scena e si muore, buona la prima.
Immagazziniamo tutti i ricordi dei nostri cari ma quell’immagine ultima, composta nel sonno della morte o ultimo svenimento, è quella definitiva, quella che rimarrà per sempre in noi,la più scolpita delle altre.
Dalla morte, evento primo e ultimo della rappresentazione, l’uomo passa a ricordare proustianamente
l’incontro con l’amata, cioè l’approdo vero alla vita, che altro non è che un passo a due di danza.
Nel primo istante in cui si conoscono, parlano di stelle e di morti, tante stelle sono in cielo, tanti sono i morti da ricordare, come le mille biglie di vetro che rotolano in scena.
Bella la scelta del registro ironico dei personaggi che si soffermano a raccontarci episodi marginali
della vita, quelle abitudini monotone, l’addormentarsi davanti alla TV, le fissazioni, le paure e le timidezze, e giocano su dettagli per noi così insignificanti mentre li viviamo, ma fondamentali per parlare di noi agli altri.
Il terrazzo è quella soglia dove amiamo stare, da dove contempliamo l’universo ma da dove poi ci affrettiamo a venir via, presi dalla paura dell’infinito nulla a cui non siamo preparati.
Quel rettangolo stretto subito fuori di casa è la nostra ora d’aria, la nostra presa di corrente, il raggio di sole
che ci concediamo.
La nostra vita è dentro quel rettangolo di terrazzo che sta dentro il quadrato di casa, che è raccolto in uno scatolone da trasloco in un cosmo gigantesco.
La vita ferma è uno spettacolo intenso, drammatico e in certi momenti anche comico come lo è la vita, e apre a mille interrogativi, quelli a cui spesso gli uomini si fanno latitanti.
Stupisce la naturalezza degli attori nel destreggiarsi continuamente tra dentro e fuori, tra prima e dopo,
tra realtà e surrealtà.
Resta la curiosità del vederlo nella sua versione definitiva nei grandi teatri che lo ospiteranno.
Scritto e diretto da Lucia Calamaro
con Riccardo Goretti, Alice Rendini, Simona Senzacqua
Assistenza alla regia Giorgina Pilozzi
Luci Loic Hamelin
contributi pitturali Marina Haas