Kosovo: i protagonisti del nuovo teatro e i centri culturali della capitale.
Pubblicato su Rumor scena
Passaggio nei Balcani. (1)
Nonostante il conflitto nei Balcani sia terminato quattordici anni fa e il Kosovo si sia autoproclamato Repubblica dal 2008 (NSK), ancora profonde sono le cicatrici della guerra contro la Serbia, che ha riconosciuto una linea amministrativa di confine (Abl) ma non l’indipendenza della sua ex regione meridionale. Per le strade si vedono sempre meno i mezzi della sicurezza internazionale (Kfor, Unmik, Eulex, Osce), considerato che da giugno 2014 molte delle missioni militari chiuderanno e si darà il via a un processo di “normalizzazione” nell’amministrazione del governo locale. La questione dei confini e la tematica del nazionalismo sono tuttavia, laceranti e palpabili, e ad attraversare queste zone, soprattutto nella parte settentrionale del Kosovo, dove è presente l’enclave serba di Mitrovica, tornano in mente le parole dello scrittore triestino Claudio Magris: “I confini muoiono e risorgono, si spostano, si cancellano e riappaiono inaspettati. Segnano l’esperienza, il linguaggio, lo spazio dell’abitare, il corpo con la sua salute e le sue malattie, la psiche con le sue scissioni e i suoi riassestamenti, la politica con la sua spesso assurda cartografia”. (Come i pesci il mare, “Nuovi Argomenti”, 1991).
Lo sviluppo urbano dopo la fine del conflitto, ha avuto una progressione vorticosa (il cosiddetto “turbo-urbanism”), apparentemente senza un vero piano regolatore, lambendo anche aree collinari un tempo preservate dal cemento perché situate in zona sismica. Coesistenze anche violente di stili e architetture poco coerenti con il paesaggio, fanno di Pristina, la capitale, una città caotica e ben poco riconducibile a una sola tipologia edilizia. L’esterno della Biblioteca Nazionale (iniziata nel 1975) ha un’improbabile e assai orribile germinazione di 99 cupole di vetro ricoperto di rete metallica: è stata inserita tra gli edifici più brutti del mondo, nella classifica del Daily Telegraph. Allo stesso stile – Brutalismo– sono riconducibili anche il Centro sportivo (una specie di fantascientifica astronave) e il Grand Hotel. Il cuore pulsante della città si snoda sul lungo Boulevard Madre Teresa, oggi definitivamente terminato con l’allestimento di una fontana che si illumina di luci colorate e sbuca direttamente dalla pavimentazione proprio davanti al Teatro Nazionale. AI lati del Boulevard, venditori di castagne arrostite, di libri usati e di schede telefoniche si alternano a bambini rom che suonano percussioni. Non sembra, comunque, di essere in Kosovo. Piazze nuove di zecca, illuminazione, fontane, negozi e moda in vetrina che guarda all’Europa dell’Ovest, sia pur con qualche anno di ritardo. Certo, questa immagine di Pristina non rappresenta la realtà kosovara, povera e con case sovente senza acqua e elettricità. Ben due statue dedicate ad eroi o “amici” del Kosovo, fanno bella mostra di sé: una è dedicata a Ibrahim Rugova, primo presidente e capo, all’epoca del conflitto, di una sorta di movimento autonomista pacifico, e l’altra è la controversa statua dedicata al “liberatore” Bill Clinton nell’omonimo viale. Uno dei tanti segnali tangibili dei forti contrasti che qua convivono. E’ chiaro che Pristina sta vivendo una rinascita che la potrà portare ad essere in questo processo di lento decentramento culturale verso Est, una delle città europee della cultura.
Luoghi e centri culturali.
Il Teatro Nazionale di Pristina (Teatri Kombetar) è uno spazio culturale istituzionale di limitate dimensioni come capienza (300 persone circa), una pianta a ferro di cavallo senza ordini di galleria ed è considerato il “salotto buono” della città. Le attività teatrali vengono insegnate alla Facoltà d’Arte dell’Università di Pristina che ha materie come scenografia, regia, recitazione, storia del teatro e una sala teatrale interna per gli esami di profitto, anche se vengono usate metodologie d’apprendimento e repertori drammaturgici più conservativi che non innovativi.
Le istituzioni culturali di Stato sono presenti, poi, con il Museo Nazionale (che ospita sia il Museo archeologico con la famosa terracotta neolitica della Dea sul trono, emblema della città, che una terrificante esposizione stabile dedicata alla presenza militare dell’Onu in Kosovo) e il Museo etnografico ricavato da un complesso residenziale di impianto ottomano ben conservato. Capitolo a parte la Galleria Nazionale d’arte contemporanea il cui conservatore nonché artista Erzen Shkololli organizza mostre collettive della cosiddetta Balkart di notevole interesse e convegni che fuoriescono dai puri slogan nazionali: se l’evento del 2012 era stato Adrian Paci, nel 2013 si sono susseguite mostre organizzate da curatori internazionali (Charles Esche, Christine Frisinghelli e Galit Eliat). Un padiglione della 55° Biennale d’Arte di Venezia era dedicata al Kosovo.
Più che le strutture istituzionali, sono i piccoli spazi culturali decentrati i luoghi dove si concentrano le forze migliori e giovani per un possibile e radicale cambiamento di rotta verso una cultura identitaria che si emancipi ma guardi anche a Ovest dell’Europa. Per avere un’idea della vivacità e della crescita artistica del nuovo Kosovo, può essere utile consultare il sito Kosovo 2.0, rivista on line che ha un corrispettivo quadrimestrale stampato dall’ottima qualità di testi e grafica. Sono quattro fondamentalmente i centri di aggregazione della capitale: si parte da Qendra Multimedia, nel quartiere Dardania, di fatto la struttura produttiva che supporta le migliori realizzazioni nel campo teatrale e letterario del Kosovo anche grazie ai finanziamenti europei. Ideato da Jeton Neziraj, giovane drammaturgo e personaggio tra i più autorevoli nei Balcani, Qendra ha prodotto spettacoli e pubblicato un interessante volume dal titolo New literature from Kosovo elencando autori, traduttori e registi presenti in questo territorio tra cui Beqe Cufaj, Visar Krusha, Shpetim Selmani e molti altri.
Adrian Paci all’opening della mostra di Pristina, foto Enver Bylykbashi
Tetris è, invece, un open space, un locale alternativo dove vengono proposti concerti, mostre e iniziative letterarie: ricavato da un appartamento privato, il luogo è accogliente e caldo e si può bere dell’ottima Rakija (la grappa aromatizzata locale) mentre si chiacchiera con i giovani creativi della capitale che qua si danno appuntamento. All’epoca della mia presenza a Pristina, a fine novembre era in programma un vernissage dell’artista Rron Qena, pittore di talento che mescola avanguardie nei suoi coloratissimi ritratti al femminile.
Imperdibile il caffè-libreria Dit’e’ Nat, luogo molto “trendy” della capitale dalla vaga atmosfera parigina, che a certe ore del giorno (a pranzo) e della sera (dopo cena) si riempie all’inverosimile di giovani studenti universitari o intellettuali, per bere e mangiare ma anche per consultare e comprare libri e ascoltare musica jazz dal vivo. Qua è possibile conversare con la co-fondatrice, la regista cinematografica Kaltrina Krasniqi che ha fatto del locale anche il luogo di incontri mensili con il cinema. Infine da segnalare tra i luoghi d’arte alternativi Stacion – Center for Contemporary Art. Fondato nel 2006 da Albert Heta e Vala Osmani, Stacion è uno spazio per artisti, architetti, pensatori, critici, e ospita eventi e conferenze internazionali.
I Teatri.
Il teatro indipendente ODA è stato fondato nel 2002 da Lirak Çelaj, attore e Mehmeti, regista. Oltre alle sue produzioni ospita compagnie teatrali dall’Albania, Macedonia e altri paesi balcanici, Europa e Stati Uniti. Oda è membro di vari network teatrali in Europa.
Il Teatro Dodona fondato nel 1985 da Rabije Bajrami e un gruppo di altri artisti come i registi Melehate Qena eIsmail Ymeri è invece un vero simbolo di resistenza. Dedicato espressamente ai ragazzi, questo teatro è stato l’unico spazio culturale rimasto aperto durante il conflitto. Quando le scuole e le istituzioni albanesi chiusero dopo la revoca da parte della Serbia, dell’autonomia del Kosovo, il Teatro Dodona divenne un luogo di incontro per la comunità albanese, e nonostante il rischio, gli spettacoli continuavano a essere programmati; fu, come ricordò il famoso attore e regista kosovaro Faruk Begolli, direttore del Dodona “una protesta contro la violenza, una manifestazione di orgoglio e dignità, una forma di resistenza”. Dalla fine del conflitto sono stati ospitati più di 370 produzioni.
Jeton Neziraj e la drammaturgia in Kosovo.
Neziraj è la coraggiosa voce politica (spesso censurata) nel teatro del nuovo Kosovo. Autore di oltre 15 commedie (tra cui The last Supper, Yue Madeline yue; The demolition of the Eiffel Tower; Patriotic hypermarket, The bridge, War in time of love) rappresentate in tutto il mondo, discute nelle sue opere, di terrorismo, razzismo, discriminazione, corruzione, e in generale del “chaotic post-war Kosovo”, la qual cosa non è stata senza conseguenze: per la sua collaborazione con Saša Ilić sulla antologia serbo-kosovara Iz incontaminate, s ljubavlju / Nga Beogradi, mi Dashuri (Da Pristina, con Amore / Da Belgrado, con Amore) ha perso la sua posizione di direttore artistico del Teatro Nazionale del Kosovo nel 2011. Neziraj pone al centro della sua riflessione, una critica alla propaganda governativa che non risparmia neanche il teatro, e sottolinea l’importanza dell’arte in una società democratica: “Un’ondata di mania patriottica ha riempito i teatri del paese che producono sempre lo stesso noioso discorso politico: quello nazionalista”.
Neziraj ha collaborato con il famoso CZKD (Centro per la decontaminazione culturale) di Belgrado diretto daBorka Pavicevic e ha realizzato l’evento Polip International Literature Festival. La nuova scena teatrale non dovrà restare ancorata al passato, alle separazioni del conflitto, ma sicuramente dovrà essere uno strumento per il superamento del trauma, per la ricostruzione, per un nuovo dialogo e una nuova identità. La natura politica del lavoro di Neziraj, le cui opere sono state tradotte in numerosi paesi fuori dalla cerchia balcanica, è nello svelare l’ambiguità della Storia e la sua irriducibilità a un racconto coerente, e come tale, non può che essere esposta in modo distorto, sarcastico, surreale e in uno stile asciutto che taglia l’inessenziale. Neziraj mette al centro dei suoi testi, personaggi emblematici di una condizione non solo sociale e politica ma anche e soprattutto “geografica”, addirittura di frontiera: il Kosovo post-jugoslavo; le circostanze in cui essi si trovano a vivere (guerre, divieti, soprusi, persecuzioni) rendono la loro quotidianità non così lineare, sempre in balìa di deviazioni catastrofiche. Con Peer Gynt dal Kosovo, Neziraj ha scritto una storia paradigmatica della migrazione europea: il suo eroe ingenuo proveniente dal Kosovo vaga attraverso l’Europa, dove sentirà la differenza tra il sogno della libertà e la realtà. In Yue Madelein Yue, una giovane Rom espulsa dalla Germania in Kosovo viene ferita in un cantiere edile: mentre combatte per la vita, il padre combatte per avere giustizia. Ma il grande detonatore dei testi di Jeton Neziraj è l’umorismo. Mille sono le battute nascoste tra le pieghe delle frasi, richiami parodici dietro cui distruggere il potere: la vedova di guerra si innamora dell’addetto all’ufficio Missing person dove era andata a denunciare la scomparsa del marito, l’uomo che fa indossare alla sua donna il burqa, non la riconosce più, in mezzo a troppe donne velate, l’attore che deve leggere il discorso sull’indipendenza del Kosovo del Primo Ministro è in crisi perché non sa quando ci sarà questa indipendenza. Testi critici su Neziraj sono stati pubblicati su Theater der Zeit (dicembre 2013); in Italia sono apparsi alcuni articoli su Post teatro (blog di Repubblica), ateatro.it, Laspeziaoggi, e prossimamente su Hystrio (gennaio 2014) e Teatro e Storia (Febbraio 2014), tutti a mia firma.
Il Crollo della Torre Eiffel: dal testo alla scena. Il debutto a dicembre 2013 a Pristina
The demolition of the Eiffel Tower è stato scritto durante una residenza artistica di Neziraj in Francia, in Val de Reuil, a seguito di un invito da parte del regista Patrick Verschueren ed è stato realizzato in forma di reading a New York (al Gerald W. Lynch Theater) in occasione il decennale della commemorazione dell’11 settembre. Agli inizi di dicembre, quest’anno, il testo ha avuto il suo primo debutto teatrale comleto di scrittura scenica al Teatro Nazionale di Pristina con la regia della moglie di Jeton, Blerta Neziraj. Blerta si è avvalsa della dramaturg Borka Pavicevic e di professionisti internazionali (per le coreografie Violeta Vitanova e Stanislav Genadiev, per le voci e musiche diGabriele Marangoni, per le ombre e marionette Clément Peretjatko) che affiancavano gli attori, tutti provenienti dal Kosovo. L’autore “tratta” la tematica urgente del terrorismo come una conseguenza dei conflitti religiosi e politici globali. Tra divisioni, fraintendimenti, fanatismi, violenze (vere e presunte), il testo smonta certezze e luoghi comuni e fa convivere il mito di Orfeo e Euridice con una fiaba (inventata) di atmosfera ottomana.
Due terroristi vogliono distruggere l’emblema dell’Europa per un atto sacrilego compiuto da un francese che va in giro per Parigi a sollevare indisturbato il velo alle donne che indossano il burka. Una serie di fraintendimenti portano alla verità: l’uomo cerca solo di ritrovare la donna che ama, confusa tra mille altre dietro il velo. Quindi si tratta non di una storia di sangue, di vendetta ma di una storia d’amore tra due ragazzi che si conoscono in strada vendendo rose e giornali. Intrecciata a questa vicenda, altre storie si inanellano, creando una drammaturgia costruita con sapienza, su piani paralleli. Si va da quella quasi fiabesca del condottiero Osman che distribuisce veli alle giovani donne (ma anche lui si innamorerà e vagherà a ricercare la sua amata nascosta dal velo da lui donato, cercandone lo sguardo, come Orfeo), a quella piena di non sense dei terroristi improvvisati che arrivano a Parigi per far saltare la Torre Eiffel. Tutto il dramma di Neziraj è una questione di punti di vista, di sguardi alterati o offuscati, di visioni non cristalline, di veli che impediscono la vista o la acuiscono, di sguardi negati. In buona sostanza, di filtri che ci impediscono di leggere la realtà.
Della coppia di terroristi (a metà tra Didi e Gogo di Beckett e Totò e Peppino) che vogliono far cadere il simbolo dell’Europa, viene data un’immagine non molto edificante. Criticano i modi di vita europei, additano la pornografia, litigano tra i componenti delle varie correnti religiose islamiche e conoscono, apparentemente, una sola legge, quella della vendetta. Alla fine l’unica torre che viene distrutta è quella fatta di cerini: qua Jeton Neziraj incontra felicemente lo scrittore Etgar Keret, nato a Tel Aviv l’anno della guerra dei Sei giorni (1967) i cui libri, apertamente ironici sui luoghi comuni della cultura israeliana, sono intrisi di vero humour nero.
In scena quattro attori di talento: Shengyl Ismaili, Ernest Malazogu, Armend Ismajli, Adrian Morina diretti daBlerta Neziraj in un allestimento originale che “intellettualizza” la drammaturgia e la restituisce attraverso corpi che si alternano alle marionette (e talvolta scambiandosi con queste): ne esce una perfetta partitura orchestrale per voci e ombre di grande effetto, ma anche una partitura di movimenti simile agli Actes sans paroles di Beckett. Centrale sia la progettazione di una scenografia da teatrino d’ombre, sia soprattutto l’apparato sonoro e vocale composto da Gabriele Marangoni, a lungo collaboratore della compagnia, che funge da accompagnamento ritmico dando una potente ossatura strutturale musicale dentro cui inserire una gestualità rituale e una mimica non naturalistica. Attori-manovratori di marionette, attori-cantanti, attori-acrobati: una vera prova di bravura da parte degli interpreti, molto apprezzata dal pubblico che ha affollato il teatro.
Il teatro di figura, con i cartoncini e le sagome dei personaggi restituisce la sensazione di atemporalità, perfettamente adatta alla storia leggendaria di Osman. Talvolta, nel compiere movimenti banali come in un rituale, nel ripetere come fossero nenie religiose delle frasi comuni, i personaggi stessi prendono dei tratti automatici e deumanizzanti, in un meccanismo dell’assurdo che dipinge a pieno la nostra società. Infatti la sensazione che la “burattinizzazione” sia dell’intero Occidente è forse un livello di lettura che andrebbe la pena di sondare. E se fossero la politica e la religione stessa a “tenere i fili” dei personaggi (terroristi o capi della rivolta, mandanti o esecutori) e a manovrarli? In scena ci sono figure sicuramente ridicole, private di un pensiero proprio. A loro calza perfettamente la metafora della marionetta senza volontà. Unica, viva, la donna con il burka che rispetto a tutti loro, ciechi o accecati appunto da un potere del tutto arbitrario, vede e ha la libertà agli altri mancata, di agire e scegliere. Blerta porta alla superficie sia una dimensione di affermazione di diritti che l’avversione per “tutto ciò che sembra”. Se nella società contemporanea il potere obbliga a indossare maschere sociali di finzione (che genereranno il conflitto), invece il velo non cambia la persona e il suo modo di essere: l’ironico e profondo brano cantato dalla protagonista velata, dal significativo titolo Io vedo corrisponde nella sostanza, alla frase di Amleto: Io ho dentro ciò che non si mostra.
www.qendra.org
http://www.jetonneziraj.com/
http://www.kosovotwopointzero.com/